L’azione è quella di salute pubblica, parte dal basso e rivendica sovranità. Il ponte sullo Stretto di Messina è stato archiviato grazie alla mobilitazione massiccia, maggioritaria e costante della popolazione. Lo stesso finora in Val di Susa: quella opposizione ferma e civile ha resistito e resiste a tutte le repressioni condotte per via giudiziaria. Perché quegli abitanti non ce l’ hanno una valle di ricambio.

L’intervista a Erri De Luca [1]

 

Dall’Agenda 21 della Conferenza ONU di Rio del 1992 alla dichiarazione politica del Vertice di Johannesburg del 2002 sino alla Convenzione Europea sul paesaggio (ratificata anche dall’Italia nel 2006) la dicotomia tra ambiente e sviluppo sembrava essere – seppur con grandi sacrifici – culturalmente e politicamente superata: lo sviluppo sostenibile è una realtà e si basa su tre pilastri (sviluppo economico, sviluppo sociale e protezione ambientale); il paesaggio va salvaguardato coinvolgendo le comunità, tramite le amministrazioni locali, affinché si rafforzi il rapporto dei cittadini con i loro territori e dunque con le città. Perché, nei fatti, non è andata e non va così nel nostro Paese?

Un intreccio di affari tra partiti e aziende a essi collegate usa il denaro pubblico delle grandi opere per accaparramento. Il ponte sullo Stretto di Messina e centinaia di grandi lavori pubblici lasciati a metà indicano da noi un modello di sviluppo della corruzione: spreco e clientela. La linea Tav in Val di Susa non avrà i fondi europei ma intanto partiti e aziende si spartiscono i nostri. Il decreto cosiddetto Sblocca Italia espropria gli enti locali dal potere di scelta sulle decisioni.

Come è possibile che nel 2015 in Europa, in Italia, un cittadino e una comunità siano costretti a vivere una assurda contrapposizione di diritti come il lavoro e la salute?

Il lavoro e la salute sono in contrasto da sempre: solo le lotte operaie hanno ottenuto miglioramenti nell’ambiente di lavoro. Ricordo gli scioperi a gatto selvaggio nei reparti di verniciatura alla Fiat negli anni ’69/70 contro l’avvelenamento da piombo. La proprietà tende al massimo profitto e dunque alla minore spesa di tutela della salute dei lavoratori. All’Ilva di Taranto si è praticato l’indisturbato spargimento di amianto per decenni.

Alcune comunità (al Sud Taranto e l’Ilva, la Terra dei fuochi e i suoi veleni, ma i casi purtroppo sono tanti e diversi, soprattutto se pensiamo anche ai rischi idrogeologici) devono “subire” uno sviluppo che non è sostenibile e che è stato deciso altrove. La logica sembra essere quella del fine che giustifica i mezzi, senza grandi paletti, per cui si produce e si realizza a qualunque costo. Qual è il punto di rottura, la linea superata la quale una comunità dovrebbe attivarsi e rivendicare il suo ruolo “politico”?

Oggi è direttamente minacciata la incolumità e la salute pubblica. Non si tratta più di ecologia ma di legittima difesa. Il limite nuovo è il diritto all’ Habeas Corpus, perché siamo in un nuovo Medio Evo e si deve riscrivere il patto tra cittadini e Stato sulla base del rispetto della integrità fisica inviolabile. Oggi siamo invece in un rapporto di sudditi sottomessi a potere feudale.

In questi casi l’azione “pubblica” qual è: quella che dall’alto autorizza e bypassa il territorio o quella che dal basso resiste e propone alternative sostenibili?

Se quello che ho appena detto è vero, l’azione è quella di salute pubblica, parte dal basso e rivendica sovranità. Il ponte sullo Stretto di Messina è stato archiviato grazie alla mobilitazione massiccia, maggioritaria e costante della popolazione. Lo stesso finora in Val di Susa: quella opposizione ferma e civile ha resistito e resiste a tutte le repressioni condotte per via giudiziaria. Perché quegli abitanti non ce l’ hanno una valle di ricambio.



[1] Intervista a cura di Fabrizio Minnella