La tessitura delle relazioni per le trasformazioni urbane

Negli ultimi anni si sono sviluppate diverse forme di partecipazione ai processi di rigenerazione urbana, che hanno visto l’alternarsi di configurazioni molto eterogenee di modalità di intervento che influenzano la lettura dei bisogni e i processi di governance e messo in discussione gli strumenti per favorire il protagonismo dei cittadini. Questo fermento ha dato vita ad un fervido dibattito che ha investito diversi campi del sapere, chiamando in causa diversi attori del processo: amministratori, urbanisti, sociologi, economisti, policy makers. Il fenomeno si è sviluppato in tutto il Paese dando vita ad una geografia molto composita, che richiede diverse scale di intervento. Si sono creati strumenti più trasversali come il regolamento dei Beni Comuni lanciato a Bologna il 22 febbraio 2014 e poi diffuso sul tutto il territorio italiano; il consolidarsi di programmi come Laboratori Urbani della Regione Puglia che hanno riattivato 151 immobili dismessi dal 2009 ad oggi; interventi più focalizzati sulla scala metropolitana e che hanno scelto l’Arte Pubblica come strumento per attivare dei processi, come per esempio quelli realizzati a Roma che hanno riguardato diversi quartieri (Tor Marancia, San Basilio, Quadraro); ed ancora, i progetti per il rammendo delle periferie promossi dall’architetto Renzo Piano nelle città di Catania, Roma, Torino; l’iniziativa del Comune di Milano che ha messo a disposizione 300 immobili pubblici per destinarli ai giovani; le 345 stazioni messe a disposizione dalle Ferrovie dello Stato per progetti ad impatto sociale; l’intervento della Fondazione CON IL SUD con il Bando Storico-Artistico e Culturale per restituire nuova vita ai beni inutilizzati nel Mezzogiorno.

Come si può facilmente evincere, l’elenco delle iniziative potrebbe essere molto lungo e altrettanto eterogeneo. In linea generale, questo sottolinea che sempre più si sente l’esigenza di riappropriarsi a vario titolo degli spazi non utilizzati per individuare nuove soluzioni di riuso; per farlo, occorre ripensare anche le forme con le quali si interviene nello spazio pubblico e sono necessari strumenti flessibili che mettano in campo processi di partecipazione attiva dei cittadini di lungo periodo.

Oramai, si tende ad una pianificazione territoriale aperta, in continuo e permanente contatto con le comunità locali per dare vita a fenomeni di innovazione sociale.

Bisogna sottolineare che la partecipazione per dirsi efficace deve essere una pratica continua e ricorrente e che richiede la dotazione di strumenti per l’ascolto del territorio, la creazione di reti orizzontali, in grado di accogliere bisogni e le aspettative locali e di contribuire a “costruire” dispositivi per la coesione territoriale, affinchè le comunità possano incidere profondamente sui processi di trasformazione del territorio.

In questo senso, i processi partecipativi assumono un ruolo rilevante e vanno pensati in forme che possano mettere in interazione strategica i territori, le amministrazioni e i cittadini.

Possiamo identificare tre diverse tipologie di approcci alla partecipazione nei processi di rigenerazione urbana che mettono in campo strumenti diversi e che mettono un accento su caratteristiche diverse: l’importanza della realazione con i luoghi, la forza delle reti orizzontali, l’arte come strumento di trasformazione e integrazione sociale.

Il primo messo in evidenza è il placemaking, che si sostanzia in un approccio alla progettazione, pianificazione e gestione degli spazi pubblici, che promuove uno strumento pratico alle questioni urbane da un’angolazione multidimensionale, aprendo nuovi spazi di azione e che ha l’obiettivo di incidere nel lungo periodo. Si tratta si un approccio che enfatizza la dimensione trasformativa e processuale, che vede il focus principale della pratica a partire dai luoghi in cui le comunità vivono. Partendo dall’assunto che lo spazio pubblico è il tessuto connettivo di una comunità, infatti, l’obiettivo del placemaking è la diffusione di un modello di sviluppo urbano che mette al centro la qualità della vita, il benessere delle comunità, più a misura d’uomo e che riesca a favorire la riappropriazione degli spazi pubblici da parte dei cittadini. La forma dello spazio dovrebbe facilitare l’interazione sociale e migliorare la qualità della vita di una comunità, creare dei luoghi vivibili per tutti.

Un altro approccio che va sotto il nome di Community Organizing mette l’accento sulla creazione di reti orizzontali per creare coalizioni civiche, multietniche e interreligiose, al fine di dare risposta a grandi problemi sociali, attraverso il potere che si genera nella comunità rafforzando le relazioni. Il metodo esiste da 75 anni, nasce in America negli anni ‘30 come forma di attivismo civico ed è stato sperimentato in oltre 100 città di 5 Paesi diversi del mondo.

Il promotore di questa metodologia in Italia è Diego Galli, che ha lavorato come community organizer per Common Ground, l’affiliata a Milwaukee dell’Industrial Areas Foundation.

Il principio ispiratore di questo processo si può riassumere con quella che il fondatore Saul Alinsky, definisce “l’arte della politica relazionale”, un “potere con gli altri” invece che un “potere sugli altri”.

Gli organizers scelgono i territori in cui operare focalizzandosi su quartieri degradati, ai margini delle città, in cui si concentrano problemi sociali di natura diversa, avviano una tessitura di relazioni con le cosidette istituzioni àncora, che rappresentano le organizzazioni stabili della società civile, come per esempio le istituzioni religiose (chiese, moschee, etc…), le scuole, i comitati e le associazioni di quartiere, i centri anziani, i sindacati.

Gli incontri vengono realizzati faccia a faccia, con le varie istituzioni e con gli abitanti del territorio, hanno una durata di 30-45 minuti. Questo lavoro è molto oneroso e il più delle volte non porta a risultati nel breve periodo, ma è funzionale all’individuazione di quelle figure che vengono identificate come leader, persone che hanno una rete di relazioni che permette di coinvolgere le comunità rispetto ai propri bisogni, agli interessi di carattere collettivo. Le relazioni si attivano con incontri individuali e vanno oltre le relazioni funzionali per lo svolgimento delle attività; poi vengono testate nell’arena pubblica allargata, con i decisori pubblici e privati avviando negoziazioni pubbliche.

La terza tipologia di approccio è quella che vede l’uso dell’arte come strumento di partecipazione nella trasformazione degli spazi pubblici. Un programma che ha preso vita è quello di Nuovi Committenti che promuove la produzione di opere d’arte commissionate direttamente dai cittadini per i loro luoghi di vita e di lavoro. Il programma nasce in Francia negli anni novanta su iniziativa dell’artista François Hers e promosso dalla Fondation de France di Parigi, è stato poi diffuso anche in Germania, Spagna, Svizzera, Svezia. L’associazione a.titolo è il referente in Italia per la Fondazione e ha curato all’inizio degli anni duemila la prima applicazione di Nuovi Committenti in Italia – promossa dalla Fondazione Adriano Olivetti nell’ambito del programma d’iniziativa comunitaria Urban 2 della Città di Torino nel quartiere Mirafiori Nord. Attualmente, stanno lavorando per lo sviluppo di un’iniziativa in Sardegna nell’area compresa tra Sassari e Alghero per valorizzare il contesto urbano e paesaggistico dei piccoli comuni mediante progetti di arte pubblica finalizzati ad accrescerne la fruizione e il potenziale attrattivo in chiave turistico-culturale.

In Nuovi Committenti, tutti i cittadini possono diventare committenti diretti di un’opera d’arte capace di generare un valore aggiunto per la comunità di riferimento. Il programma è orientato alla realizzazione di opere d’arte pubblica a carattere permanente o semi-permanente, intese come strumenti di recupero ambientale o paesaggistico, di trasformazione e d’integrazione sociale o culturale, di valorizzazione della storia e della memoria, e come complemento, anche funzionale, di azioni volte a favorire la fruibilità e la vivibilità dei luoghi.

Da questa breve riflessione emerge la ricchezza e la varietà delle esperienze in corso che si avvalgono degli strumenti e delle metodologie più variegate, che danno vita alla possibilità di perseguire delle linee strategiche d’azione in grado di avviare processi di lungo periodo e che generano impatti sui territori.

In conclusione, al di là del processo che si sceglie di adottare, è necessario dotarsi di un metodo, degli strumenti e delle competenze per far diventare i processi di partecipazione delle opportunità di innovazione sociale per incidere sulle trasformazioni urbane.