(Intervento tratto dall’incontro “L’impresa culturale al Sud” del 15 ottobre 2015 a Palermo nell’ambito della manifestazione NUOVE PRATICHE CON IL SUD).

Vorrei offrire una testimonianza di prima mano a proposito dell’origine del regolamento Labsus sull’amministrazione condivisa dei beni comuni.

Nel 2009, una disposizione nascosta in uno dei numerosi provvedimenti miranti a superare la crisi, e precisamente l’art.23 comma 1 del D.L. 185/2008 convertito in legge 2/2009, sotto un titolo insieme anonimo e singolare, e cioè “Detassazione dei microprogetti di arredo urbano o di interesse locale operati dalla società  civile nello spirito della sussidiarietà”, ha introdotto una ipotesi di notevole interesse.

Disponeva infatti (e tuttora dispone, perché è ancora in vigore) che per la realizzazione di opere di interesse locale, gruppi di cittadini organizzati possono formulare all’ente locale territoriale competente proposte operative di pronta realizzabilità indicandone i costi ed i mezzi di finanziamento, senza oneri per l’ente medesimo. L’ente locale provvede sulla proposta, con il coinvolgimento, se necessario, di eventuali soggetti, enti ed uffici interessati,  fornendo prescrizioni ed assistenza.

Era un segnale degno di essere colto perché, per venire ai nostri temi, si apriva la possibilità di una micro progettazione urbana da parte di cittadini che, presentando progetti alle loro amministrazioni, possono proporre micro interventi su parchi o altri spazi pubblici per i quali poi l’amministrazione ha una corsia per così dire riservata di valutazione e di realizzazione.

La cosa era ovviamente ad uno stadio molto preliminare, e si può capire perché la prima reazione della amministrazione di Bologna sia stata quella di disciplinare le condizioni in base alle quali le proposte potevano essere avanzate, preoccupandosi in particolare degli aspetti legati alla responsabilità. Non va dimenticato infatti che questa materia tocca un ampio ventaglio di profili: immaginiamo ad esempio che un gruppo spontaneo con le migliori intenzioni si prenda la briga di verniciare le panchine, poi qualcuno si siede e si rovina il vestito, allora nasce un problema; o qualcuno monta una struttura che casca e fa danni; insomma, c’è un problema di responsabilità. Ecco perché la cosa fu affrontata dal lato se vogliamo più burocratico e difensivo, ovvero assicurandosi che non vi fossero danni o problemi per l’amministrazione.

Quella però fu anche l’occasione per affrontare con gli amministratori un altro aspetto della questione. Il nostro messaggio come Fondazione del Monte consistette nel dire: accanto agli ovvi problemi che ha l’amministrazione, perché non proviamo a fare di questa legge un’occasione di incontro fra amministratori e cittadini (non per risolvere sulle spalle dei cittadini il problema del taglio della spesa, naturalmente, anche perché sarebbe una soluzione tutt’altro che agevole).

Il problema era diverso: innanzi tutto, gli spazi pubblici sono spazi a prestazione non predefinita e non predefinibile, sono pubblici esattamente per questo. In secondo luogo, le popolazioni delle città sono eterogenee, fra loro sempre più articolate e frammentate, spesso con regole non comuni: quando in una piazza di Bologna si vedono i bambini pakistani giocare a cricket, ma potremmo dire la stessa cosa parlando di una scuola o di un pronto soccorso, ci si accorge che il grande mutamento è già avvenuto e che ci troviamo a navigare in zone completamente fuori dalle nostre rotte tradizionali. Con due corollari: per un verso, la sistematizzazione di fenomeni di questa portata che incidono in profondità sul modo di essere delle nostre città non può essere delegata allo spontaneismo dei soggetti della società civile, e per altro verso occorre avere un’amministrazione capace di interloquire in modo adeguato.

E qui si arriva al punto: salvo limitate eccezioni, in generale la nostra amministrazione non è in grado di assicurare una simile interlocuzione, perché non è nata per interloquire con chi ha di fronte ma per eseguire ciò che arriva dall’alto. Infatti nel suo impianto di base tutti gli elementi chiave, a partire dalla catena di comando per giungere alla legittimazione o alle risorse, viene dall’alto mentre dal basso vengono solo problemi da affrontare e risolvere. Queste sono le ragioni profonde e anche storiche per cui aprirsi davvero alla partecipazione costituisce una difficoltà enorme per l’amministrazione pubblica per quanto possa essere (e spesso lo è) sensibile, perché gli strumenti di cui dispone sono orientati in senso opposto e quelli nuovi sono ancora molto carenti. Ad esempio, se si accetta il principio secondo cui è bene che la pubblica amministrazione non faccia direttamente ma sappia far fare ad altri, almeno là dove è possibile, ci si accorge subito che manca un’adeguata strumentazione di regolazione preventiva, di controlli di processo e di prodotto, di gestione (anche congiunta) di risorse, di regime delle responsabilità e di riconoscimento dei meriti.

Malgrado ogni giorno vengano intonati inni e canti in onore della cooperazione, chi guarda senza veli o pregiudizi l’istituzione pubblica si accorge che in buona parte si tratta ancora di un sistema ricco di disincentivi in questa direzione. Il che spiega perché il pubblico abbia in realtà un unico modo di rapportarsi con ciò che si colloca al (suo) esterno: dove finisco io, cominci tu. Il che, in termini di interazione reciproca non è proprio il massimo.

Da questo nasce nel 2011 l’idea, che la Fondazione che presiedo ha formulato e finanziariamente sostenuto, di un progetto con il Comune di Bologna supportato dalle solide competenze in materia di Gregorio Arena e di Labsus, di far crescere i soggetti sociali aiutandoli a rapportarsi in modo corretto con gli apparati pubblici e nello stesso tempo “attrezzare” l’amministrazione, in modo da sapersi rapportare utilmente alle proposte provenienti dall’esterno con appropriate forme di comunicazione, di istruttoria, di procedure e responsabilità modellate in modo coerente con queste finalità. Ed è naturalmente con grande soddisfazione che da tutto questo è nato il regolamento di cui in questa sede si sta parlando.

Per finire, qualche suggerimento che se mi è consentito vorrei avanzare dopo avere ascoltato con molto interesse gli interventi precedenti.

In generale, ma soprattutto nel mondo degli strumenti giuridici, le letture dietrologiche e a senso unico sono sconsigliabili non solo perché disegni maliziosi e lucidamente finalizzati ad un certo risultato sono più rari di quanto non si creda (più diffuse semmai, ahimè, carenze informative e soluzioni pasticciate), ma soprattutto perché l’eterogenesi dei fini nel campo delle normative giuridiche è una costante. Dunque, giochiamoci le possibilità che si aprono, sapendo ovviamente che accanto alle opportunità ci sono rischi e problemi.

Alcuni evidenti, e all’attenzione di ognuno di voi come del resto ho verificato anche questa mattina: l’uso distorto di queste forme di cooperazione sia da parte delle amministrazioni pubbliche (per compensare in questo modo i tagli di spesa pubblica) che da parte di realtà interessate a pratiche di concorrenza sleale nei confronti di imprese o operatori, sono rischi concreti cui prestare molta attenzione.

Ma vi sono altri aspetti meno evidenti che vorrei richiamare nel concludere.

Tra questi, intanto può essere utile tenere conto che nella impostazione originaria bolognese il rapporto Pa -cittadini è stato prevalentemente assunto in modo diretto, e dunque per certi aspetti semplificando altri importanti profili quali ad esempio la realtà degli operatori e delle imprese che operano professionalmente nello spazio intermedio tra l’una e gli altri. Si tratta di un versante che sicuramente merita un apposito approfondimento.

Ancora, e soprattutto, l’esperienza bolognese si è avviata con l’analisi ravvicinata di alcune iniziative in atto sul territorio e solo dopo due anni e mezzo di sperimentazione sul campo, con l’individuazione dei problemi emersi in concreto e la messa a punto degli strumenti necessari, si è proceduto alla stesura del regolamento.

Dunque il regolamento, con tutti gli adattamenti che le varie situazioni e i diversi contesti richiedono, è molto più un punto di arrivo e che non un punto di partenza.