Più a Sud di Lecce, a metà strada fra Gallipoli e Otranto, si trova Cutrofiano, città della ceramica. Sono una trentina in Italia le città che aderiscono all’Associazione “Buongiorno Ceramica – Associazione italiana delle città della ceramica”. Ma comunque mi sembra abbia senso, in questo contesto, raccontare il caso di Cutrofiano. E’ infatti sufficiente entrare nel suo Museo della ceramica per capire che la storia di questa comunità è indissolubilmente legata a questa produzione della ceramica, in particolare di quella d’uso. A partire dal Neolitico, infatti, gli abitanti di questo lembo del Salento hanno cominciato a conservare semi, liquidi e farine in recipienti di terracotta e fin dalle origini la ricerca sul materiale non si è mai separata dallo studio della forma, rendendo i vasi neolitici salentini, al pari delle pitture rupestri, testimonianze commoventi della ricerca estetica che sempre accompagna la vita dell’Homo sapiens.

Probabilmente non c’è una tappa significativa della storia che non abbia lasciato una traccia nell’evolversi della ceramica di Cutrofiano: così i contatti con altre culture portano nuovi materiali con cui formare nuovi utensili e nuovi colori. E le trasformazioni dell’economia locale, la cristianizzazione delle popolazioni, i cambiamenti sociali possono tutti essere raccontati passeggiando per il museo.

Ma la storia della ceramica a Cutrofiano non vive solo cristallizzata in un museo. Diverse imprese producono ancora oggi ceramiche all’interno del territorio comunale; quest’anno fra novembre e gennaio Cutrofiano ospiterà la mostra “Grand Tour alla scoperta della ceramica classica italiana” dell’Associazione Italiana Città della Ceramica. Uno dei curatori dell’allestimento è Jean Blanchard (con Viola Emaldi e Anty Pansera), uno fra i prestigiosi curatori di Homo Faber, la mostra di Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmanship che per due settimane ha reso visibile a oltre 65.000 persone l’eccellenza dell’artigianato europeo. Il sottotitolo della mostra che si è tenuta a Venezia, la cui curatela generale è di Alberto Cavalli, è Crafting a more human future; in un mondo ipertecnologico “ci troviamo a volgerci ancora verso ciò che ci lega alla nostra umanità, a riscoprire il valore di oggetti la cui bellezza, non effimera ma durevole, può nascere solo dalla mano dell’uomo. […] La capacità di creare qualcosa con le nostre mani è un modo potente per esprimere qualcosa di noi stessi, per portare nel mondo qualcosa che abbia un valore” (dal catalogo edito da Marsilio, p. 12).

Non solo nell’esperienza degli artigiani si fonde la capacità di progettare con quella di realizzare, ma l’opera dell’artigiano permette a chi la compie e a chi la impara a conoscere una esperienza di senso; in un mondo in cui la diffusione della tecnologia rende opaco il funzionamento di quasi qualunque oggetto abbiamo intorno a noi, non è forse un’esperienza di grande soddisfazione capire come si fa qualcosa?

I canali tematici che tentano di rappresentare il “reale” propongono una nutrita serie di programmi per spiegare come sono fatte le cose e credo che chi ha potuto vedere i talenti artigiani che mostravano il loro mestiere durante Homo Faber ha avuto una meravigliosa esperienza di stupore, scoprendo con quali materiali e quali gesti si realizzano oggetti preziosi e complessi.

Una simile esperienza di senso ci viene offerta dal museo di Cutrofiano e dagli itinerari della ceramica che, nel centro abitato, portano a scoprire le manifatture ancora attive e le loro specializzazioni.

Fa parte di questo sistema vivo e vivace anche il fatto che la festa più importante di questa comunità è la Mostra Mercato della Ceramica artigianale (nell’agosto appena trascorso si è celebrata la 46° edizione), una occasione di ritrovarsi, commerciare e consumare i prodotti e le preparazioni gastronomiche tradizionali, di ballare in piazza e sparare i fuochi d’artificio ma anche di mostrare, vendere e celebrare la ceramica locale.

Tutto questo sistema (museo, festa, sezione dedicata della biblioteca locale) grava in larghissima misura sulle Amministrazioni locali (Comune e in parte Regione), che faticano a trovare nei loro bilanci le risorse per mantenerlo in vita. E non di rado gli Amministratori e i residenti si domandano (in tutta l’Italia dei centri minori): ma il valore del nostro museo giustifica lo sforzo richiesto per tenerlo aperto?

Siamo abituati a pensare che un brand territoriale possa affermarsi intorno a un vino (il Chianti, fra tutti) o ad un prodotto agroalimentare (Colonnata, San Daniele e mille altri). Cominciamo a capire con qualche resistenza che lo stesso può accadere con altre manifestazioni della cultura materiale. Se si possono andare a vedere i tori di San Firmin a Pamplona o le Settimane Sante andaluse forse si può pensare che i mestieri d’arte tradizionali possono definire (o contribuire a definire) una destinazione turistica. Nel 2001, l’UNESCO ha iniziato a redigere la “Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità”, nella quale dal 2012 è inserito, ad esempio, il “Saper fare liutario di Cremona”.

Proprio come quell’insieme di pratiche artigianali tradizionali di qualità che è la gastronomia (capace di coniugare radici e innovazione come ancora non accade in maniera sufficiente nell’artigianato) e ancora meglio per come è stato con il vino (fenomeno studiato e modellizzato dal gruppo di ricerca di W. Santagata già nel 2000), la crescita della qualità del prodotto non può che avvenire di pari passo alla crescita di competenza dei consumatori.

I mestieri d’arte e dell’artigianato di tradizione hanno bisogno del contributo di tutte le voci di divulgazione possibili, anche per creare questa competenza dei consumatori e così far nascere e crescere un mercato capace di riconoscere la qualità nei prodotti. Il sistema di Cutrofiano composto di storia, museo, festa, biblioteca, realtà produttiva costituisce un modello comunicativo di grande interesse.

Non è possibile certo affermare che sia la ceramica graffiata tipica di Cutrofiano a determinare i flussi turistici imponenti che stanno visitando il Salento nelle ultime estati. Immagino però che nel sistema complesso delle motivazioni che incidono sul turista e lo spingono a scegliere un paese salentino invece che, per esempio, Benidorm ci sia una componente che ha a che fare con una “riconoscibilità” della destinazione, che volendo possiamo ricondurre all’identità locale, un misterioso mix in cui compaiono senz’altro il paesaggio (anche antropico), il cibo, le feste ma anche quello che si riesce a cogliere della vita della comunità, che ha altrettanto a che fare con uno human present, in cui i cibi, l’accoglienza e, perché no, gli oggetti sono prodotti dotati di senso, fatti da persone presenti per altre persone presenti.