La politica di coesione dell’Unione Europea (e dei relativi fondi strutturali che ne sono il principale strumento di attuazione) è oggetto da tempo di opinioni contrastanti, a tutti i livelli del dibattito politico, economico e istituzionale dell’intero continente. Alcuni trovano nei dati disponibili una prova dell’efficacia degli interventi realizzati, e sostengono che la politica di coesione aggiunge un valore significativo all’azione per lo sviluppo da parte degli Stati membri. Negli ultimi tempi vengono presi ad esempio di questo convincimento i risultati della Polonia e di altri Paesi dell’ex impero sovietico ( e nei decenni passati quelli della Spagna, dell’Irlanda, e dell’ex Germania Est). Altri utilizzano gli stessi dati per affermare che non esiste alcuna ragione per cui l’UE debba gestire ancora una politica di coesione e non debba invece essere lasciata solo alle singole nazioni. L’esempio che viene portato a sostegno di questa tesi è, tra gli altri, proprio quello del nostro Paese. Sembra, dunque, mancare un terreno comune, un minimo comune denominatore per dare vita a un pubblico dibattito serio e approfondito sull’argomento. I punti di vista sono diametralmente opposti, i presupposti concettuali sono opachi, e si sono diffuse diversi concezioni errate in merito agli obiettivi da realizzare. E, ripeto, non c’è una analisi condivisa dei risultati. In queste condizioni, i tentativi di riformare la politica di coesione a livello europeo, che sono necessari ancor più di quelli dei singoli Stati e delle singole regioni beneficiarie, sono destinati a fallire. Anche per quanto riguarda la prossima programmazione 2014/2020 le ipotesi di una “svolta strategica” sono state largamente deluse.

La politica europea di coesione economica e sociale nasce nel 1986 con l’obiettivo precipuo di diminuire le disparità in Europa. Nel trattato a base dell’Unione è scritto che “La Comunità mira a ridurre il divario di sviluppo delle varie regioni e il ritardo delle regioni meno favorite”. I fondi strutturali sono stati ideati come attuativi di questa strategia, per fornire cioè pari opportunità ai vari e diversamente sviluppati territori dell’Europa unita. Se i risultati a quasi 30 di distanza dall’avvio non sono brillanti, o almeno si sono realizzati i medesimi risultati dappertutto, vuol dire che qualcosa di “strutturale” va cambiato nella strategia europea che sottende ai fondi strutturali. Cosa fa l’Unione per garantire che tutti i territori e tutti i cittadini europei abbiano la possibilità di utilizzare al massimo le opportunità offerte dall’Unione stessa, e di far fronte ai rischi di ulteriori disparità? Dov’è finito l’impegno per “promuovere uno sviluppo armonico di tutti i territori”? E le politiche europee finora messe in campo sono servite all’obiettivo? Quanto c’è  di responsabilità dell’Unione europea in questa difficoltà delle politiche di coesione e quanto c’è di responsabilità nazionale e locale? Qualsiasi ragionamento in Italia sui risultati dei fondi strutturali dovrebbe partire da qui, dai limiti evidentissimi delle strategie dell’insieme dell’Europa.

In Italia, invece,le opinioni non sono contrastanti, ma unanimi, secche, perentorie: la politica di coesione dell’Ue è fallita e lo provano le pessime performance sull’utilizzo dei fondi strutturali delle Regioni e il progressivo aumento del divario tra le varie parti del Paese, pur in presenza di cospicue risorse investite.

Ultimamente, infatti, in Italia si discute molto di fondi strutturali. Da essere un tema marginale ancora una decina di anni fa, quasi per addetti ai lavori, sono diventati un argomento di confronto e discussione anche per il grande pubblico. Ma la materia è complessa e non facilmente si presta a semplificazioni comunicative; non tutti quelli che sono obbligati ad occuparsene per ragioni relative alle loro funzioni (la classe dirigente nazionale e meridionale, da quella politica, sindacale, imprenditoriale fino a quella delle libere professioni e agli opinionisti di stampa e Tv) lo fanno con competenza e passione. Purtroppo la discussione avviata nei mesi scorsi (sulla incapacità di spenderli e sulla nuova programmazione 2014/2020) risente proprio della scadente preparazione in materia di coloro che fanno opinione. Per molti di essi l’argomento “fondi strutturali europei”, piuttosto che una discussione di merito, è solo l’ennesimo pretesto per ribadire l’inutilità di qualsiasi intervento di politica economica verso i territori meridionali, convinti che tutti gli interventi in favore del Mezzogiorno siano destinati a fallire, anche e soprattutto per una immutabile diversità antropologico-culturale dei suoi cittadini e delle sue classi dirigenti. Se infatti facessimo un sondaggio sull’argomento, la maggior parte degli intervistati legherebbero strettamente i fondi strutturali a spreco di risorse pubbliche e a totale inefficienza delle Regioni meridionali. E molti giornali sostengono da tempo questo convincimento. Anzi, se prima erano le mafie il principale argomento contro Il Sud e i suoi abitanti, ora sono i fondi europei a prenderne il posto.

Una grande politica europea e nazionale di sviluppo strutturale scade così a elemento di polemica spicciola. Tutto ciò non è serio. Con questo articolo vorrei contribuire a sfatare alcuni luoghi comuni sui fondi strutturali che, malgrado il gran discutere degli ultimi tempi, continuano a offuscare un serio ragionamento su di essi e più in generale sulle politiche di coesione dell’Ue.

Primo luogo comune: i fondi strutturali sono in grado da soli di garantire una ripresa del processo di sviluppo del Mezzogiorno e ridurre il divario tra Nord e Sud

Non è assolutamente così. Da soli i fondi europei non sono in grado di ridurre il divario, né tanto meno avviare un processo di sviluppo. Essi, per il modo in cui in Italia e in Europa sono utilizzati possono tutt’al più avere una funzione anticiclica, di aiuto congiunturale in un periodo di difficoltà. Questa è l’accusa che oggi si può fare alle regioni meridionali, ad esempio la Campania, che non è stata in grado neanche di utilizzarli in funzione di tamponamento alla crisi iniziata nel 2008.

Si sostiene che nonostante questi “copiosi” interventi, il Mezzogiorno cresce “meno”: meno del passato, meno delle regioni del Centro Nord, meno delle altre regioni europee in ritardo di sviluppo. Da ciò molti deducono che essi sono sprecati. La performance assai migliore delle altre regioni europee in ritardo di sviluppo, in particolare quelle tedesche e, fino alla crisi, quelle spagnole, è legato al miglior andamento complessivo di quelle economie. Se va male l’economia di un Paese, i fondi europei non sono in grado di invertire la rotta. Prova ne sia che il confronto fra gli andamenti negli ultimi 15 anni delle più forti regioni italiane rispetto alle più forti regioni europee, è altrettanto sconfortante.

Ma il punto di fondo è un altro. Quando i fondi strutturali riguardano un intero Stato membro dell’Unione (come nel caso della Polonia e di altri paesi dell’Est o per molti versi di Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda nel passato) essi sono per definizione addizionali: cioè apportano risorse aggiuntive ai bilanci nazionali, finalizzate allo sviluppo dei diversi territori. E quei paesi li utilizzano come una specie di finanziamento aggiuntivo alle loro politiche nazionali già decise. Nel caso italiano, invece, essi non sono stati affatto addizionali rispetto ad altre risorse investite dai nostri governi, anzi in gran parte hanno sostituito i tagli alle spese ordinarie che si sono avute nel Sud nel corso degli ultimi decenni apportano risorse che, per regola comunitaria, devono essere “addizionali” rispetto a quanto si fa solo in una porzione del territorio. Si sa che lo Stato membro deve garantire all’Unione un ammontare concordato di risorse proprie, territorialmente mirate, rispetto alle quali quelle europee devono aggiungersi. Questo principio (“l’addizionalità”) è assai difficile da verificare. Ma nel caso italiano è certo che non è stato affatto rispettato: per il ciclo 2000-06 l’Italia chiese una formale riduzione dell’addizionalità; per il 2007-13 una verifica intermedia ufficiale ne ha certificato il mancato rispetto (circostanza che, peraltro non ha riguardato solo l’Italia). La dimensione dei fondi strutturali, pur rilevante, è pari a meno della metà del totale della spesa in conto capitale nel Mezzogiorno, a meno del 5% del totale della spesa pubblica. Nel 1998 fu calcolato quanto fosse necessario investire nel Sud perché almeno la sua economia crescesse a un tasso superiore di quello del Centro-Nord. D’altra parte se ti prefiggi lo scopo di annullare o almeno ridurre il divario tra due parti della stessa nazione, è indispensabile che per diversi anni l’economia più debole cresca molto di più di quella più forte. Ebbene per ottenere quel risultato era necessario concentrare nel Sud il 45% di investimenti in conto capitale. Risultato che non è stato mai raggiunto, perché per realizzarlo era indispensabile aumentare la spesa per investimenti in capo ai ministeri, in quanto da sola la spesa straordinaria non è assolutamente sufficiente per centrare quell’obiettivo.

Appare molto difficile che un intervento di così limitata entità possa essere di per sé sufficiente a mutare le sorti di un territorio così ampio come il Mezzogiorno, senza una profonda azione di potenziamento dell’intervento nazionale di “sviluppo” (infrastrutture, ricerca, istruzione, politiche industriali), e di riqualificazione della spesa ordinaria, della scala di quello registrato negli ultimi 15 anni ad esempio nella Germania Est. In definitiva le risorse comunitarie funzionano meglio in territori omogeneamente arretrati, non in una nazione dallo sviluppo duale, qual è l’Italia, dove con i fondi europei si fa una politica “a parte”  rispetto a quella che vale per l’intero territorio nazionale. Certo c’è il caso virtuoso dello sviluppo della Spagna, della Grecia, del Portogallo e dell’Irlanda nei primi anni delle politiche di coesione svolte dall’Unione Europea. A cosa si deve quel successo? Quando i fondi strutturali riguardano un intero stato membro (come attualmente avviene anche per la Polonia) essi, ripeto, sono “addizionali” nel vero senso della parola. E quei paesi li utilizzano come una specie di finanziamento moltiplicatore delle loro politiche nazionali già decise. E le due fonti di finanziamento (nazionale ed europeo) si integrano. La Spagna con i fondi europei ha fatto una politica nazionale di sviluppo, in cui ha pienamente coinvolto il suo Sud. In definitiva le risorse comunitarie funzionano meglio in territori omogeneamente arretrati, non in una nazione dallo sviluppo duale, qual è l’Italia, dove con quei fondi si è fatta una politica “a parte” rispetto a quella che valeva per l’intero territorio nazionale. Nel caso della Germania Est il motivo del successo sta in queste cifre: solo il 5% dell’intero ammontare delle risorse utilizzate per la riunificazione della Germania vengono da fondi europei, il 95% vengono da risorse dello stato tedesco e da investimenti privati. La Germania unita ha speso in poco più di 20 anni nei suoi territori arretrati 1500 miliardi di euro; nel Sud d’Italia in 60 anni sono stati spesi 350 miliardi di euro. La Germania di oggi deve il suo primato economico in Europa e nel mondo agli investimenti fatti nel suo Sud: gli investimenti pubblici fatti in alcuni territori arretrati si sono trasformati in ricchezza nazionale. Questo modello non è stato applicato al Sud d’Italia.

Secondo luogo comune: il ritardo nella spesa è dovuto solo alle Regioni

In questo momento i ritardi riguardano tutte le Regioni italiane e non solo quelle meridionali, e coinvolgono pienamente anche i ministeri. E le cause vanno rintracciate in gran parte nelle scelte di politica nazionale e non solo nella pur evidente inefficienza delle regioni meridionali.

In Italia si è deciso di fare fronte alla crisi finanziaria diminuendo la spesa pubblica per investimenti. Certo l’hanno fatto anche altre nazioni, ma le conseguenze da noi sono state più deleterie, perché hanno toccato proprio il campo dei fondi strutturali. Infatti, tra le conseguenze delle scelte governative c’è’ stata prima quella di un rigoroso patto di stabilità interno (il limite tassativo di spesa per le regioni e ministeri), poi- come abbiamo visto- di una drastica riduzione del cofinanziamento alle risorse europee. In questo modo ci siamo infilati in un circolo vizioso spaventoso: i governi formalmente spingevano le regioni e i ministeri a spendere i fondi strutturali, ma ai fini del mantenimento del patto di stabilità e della riduzione del deficit era più conveniente non farlo. Le Regioni, con la riduzione del cofinanziamento, sono state costrette a ridimensionare i loro programmi. Insomma, da un lato si chiedeva di utilizzare velocemente i fondi e al tempo stesso si costruiva una gabbia per impedirne la rapida spesa. Chi ha inventato questo meccanismo? Chi sono stati questi geni, a Roma e a Bruxelles?

Alcuni commentatori sembrano ossessionati dall’eliminare le Regioni, convinti che senza di esse i fondi europei avrebbero maggiore efficienza. Che singolare paese l’Italia, dove in pochi anni si passa dal più esasperato federalismo (e dunque dall’affidare maggiori poteri alle Regioni) all’irrazionale, odierna, iconoclastia regionale! E spesso sono le stesse persone oggi così antiregionaliste ad aver sostenuto la bontà del federalismo regionale. Non è questa l’occasione per discutere del rapporto indubbiamente non positivo tra regionalismo e meridionalismo. Da questo punto di vista l’Italia appare collocarsi nella media europea nel peso assegnato ai governi regionali nella complessiva spesa “per lo sviluppo”, e soprattutto per un elevato ruolo delle Regioni nella gestione diretta dei fondi strutturali. Ma gli antiregionalisti dimenticano un dato incontrovertibile, che cioè sull’utilizzo della spesa sono in grave ritardo anche i Ministeri (cioè il potere centrale) che pure gestiscono risorse comunitarie cospicue. Insomma un problema così ampio di inefficienza non lo si può mettere solo sulle spalle delle Regioni meridionali, visto che anche i ministeri stanno mostrando una inefficienza spaventosa e le Regioni del Centro- Nord manifestano un livello di spesa inferiore a quello delle altre regioni europee.

Vi è poi un ulteriore dato: le amministrazioni regionali, nella definizione di insieme delle strategie e delle politiche, sembrano avere un interesse particolare a quanto di loro diretta competenza e gestione (come è normale che sia), ma appaiono disinteressarsi agli interventi, gestiti da altri, sia su scala nazionale che sovraregionale, che pure hanno ricadute importanti nei propri territori. Molti cruciali problemi del Mezzogiorno, dai trasporti all’ambiente, hanno invece una indubbia dimensione sovraregionale, e possono essere affrontati con qualche speranza di successo o attraverso forme di stretta collaborazione fra Regioni o attraverso interventi di livello superiore a scala appunto sovraregionale.  Ma questo quasi mai succede.  Ricordiamoci sempre che la qualità di quanto riescono a fare le amministrazioni decentrate dipende moltissimo dalla qualità di quel che fanno le amministrazioni centrali e dalla loro capacità di guida e di esempio. Insomma, se non c’è un “centro” ben funzionante le politiche pubbliche nelle regioni e delle Regioni funzionano male, come spesso ricorda giustamente Gianfranco Viesti.

Terzo luogo comune: la frammentazione causa dell’insuccesso

Infine, il dibattito si è concentrato sulle dimensioni degli interventi, prendendo a pretesto l’eccessiva frammentazione della spesa, che è sicuramente un problema, ma non “il problema”. Per esempio la giunta regionale della Campania ha deciso nei mesi scorsi di destinare una somma di 1 miliardo e mezzo ad interventi programmati dai comuni inferiori ai 50.000 abitanti, con una media di un milione e mezzo per ogni intervento. E da qui la polemica: possono essere efficienti o produrre sviluppo interventi di spesa  che non superano il milione e mezzo di euro?

Ma la critica sulla frammentazione della spesa va valutata con attenzione e con tutte le implicazioni che ciò comporta. Perché bisogna sempre ricordare che una grande opera ha bisogno di più anni per essere realizzata. Secondo gli studi ministeriali un’opera pubblica di importo superiore ai 100 milioni impiega in media 11 anni per arrivare a conclusione. L’Italia è un paese dove per le procedure  in vigore è difficile vedere realizzata una grande opera nel giro di un ciclo di programmazione dei fondi europei (7 anni), perciò la metropolitana di Napoli (che orgoglio nell’ammirare la meravigliosa stazione di Toledo!) è stata finanziata con almeno due/tre cicli di programmazione. L’ultimo ministro alla Coesione, Carlo Trigilia, stava valutando l’opportunità di escludere dal finanziamento dei fondi europei le grandi infrastrutture, proprio per la lunghezza dei tempi di realizzazione. Inoltre la frammentazione della spesa è un problema di tutte le aree del paese, tanto nel Mezzogiorno tanto nel Centro-Nord.

Esiste poi una dimensione ottimale degli interventi? Cioè, si può dire tranquillamente che un’opera inferiore ai 2 milioni di euro è uno spreco, e sopra quella cifra è funzionale allo sviluppo? L’effetto positivo delle grandi opere non sempre è scontato. E poi opere di piccole dimensione possono essere inserite (o essere la traduzione operativa) di un grande progetto o di una grande politica. Poniamo le opere di ristrutturazione delle scuole italiane. Se si facesse un programma del genere, è chiaro che l’entità dei finanziamenti dei singoli plessi scolastici sarebbe quasi tutta inferiore ai due milioni di euro, ma ciò non ridurrebbe la loro grande importanza. Quindi per evitare frammentazione della spesa non sempre è necessario ampliare l’importo da finanziare, ma basta inserire le singole opere dentro poche scelte di indirizzo generale. A cui tutti i comuni si debbono adeguare.

Concludo con alcune riflessioni ancora di Viesti che condivido e sottoscrivo: “le politiche di coesione (di cui i fondi strutturali sono attuazione) sono la principale politica dell’Unione Europea, complessa, articolata, ma straordinariamente importante specie con l’attuale crisi; occorrerebbe che su di esse si avviassero riflessioni attente e modifiche radicali, a livello europeo, nazionale e locale. La circostanza che in Italia emergano così tante criticità non dipende solo dalle caratteristiche della politica, o dalle attitudini clientelari dei politici del Sud, ma da profonde debolezze dell’intero Paese, più accentuate nel Mezzogiorno. A volerle analizzare in profondità, potrebbero fornire indicazioni molto importanti su alcune importanti “riforme” da attuare in Italia. Ci si accontenta invece di una discussione sciatta, approssimativa, ricca di luoghi comuni, che davvero non porta lontano.”