Meno del 10% di aziende mafiose riprende l’attività dopo il sequestro o la confisca da parte della magistratura. Ciò è molto preoccupante nelle attuali condizioni dell’economia meridionale.

Le difficoltà nel riutilizzo sono inerenti alla norma, al comportamento della magistratura, oppure c’è anche un problema teorico mai risolto alla base della legge e della sua applicazione? Se in un qualsiasi altro settore ci fossero migliaia di imprese che prima lavoravano, stavano sul mercato, procuravano reddito e lavoro e successivamente non producono più, non danno più reddito e lavoro, tutto ciò farebbe discutere per mesi e mesi i partiti, i sindacati, le istituzioni. Invece, in questo caso, la discussione resta tra gli addetti ai lavori e non assume mai l’importanza economica e sociale che merita.

Va ricordato che quando falliscono imprese “legali” per comportamenti illegali e fraudolenti dei loro titolari (non considerati criminali) di queste imprese lo Stato si occupa. Dopo la vicenda Parmalat, sono state varate leggi apposite per consentire che imprese nelle stesse condizioni potessero tornare sul mercato.

Chiunque ha a cuore il funzionamento dell’economia sa che è fondamentale non fermare un’impresa, al di là di chi e di come è stata gestita, perché l’impresa prima che una proprietà privata è anche un bene sociale. Perciò in questi casi giuridicamente, moralmente ed economicamente si opera per separare le responsabilità penali individuali (di qualsiasi tipo esse siano) dalle conseguenze collettive che quei reati comportano. Cioè, si separa la proprietà dall’attività. Insomma, è possibile punire l’imprenditore e salvare il lavoro e la ricchezza collettiva che l’impresa produce.

Non succede, invece, la stessa cosa con le imprese mafiose, non si applica nei fatti lo stesso principio. Perché? Che cosa c’è di diverso nell’impresa mafiosa rispetto a quella legale che si è comportata illegalmente? E qui, in teoria, c’è un aspetto importante da non sottovalutare. Nell’impresa mafiosa c’è un “di più”: l’uso della violenza o la minaccia della violenza nella competizione di mercato.

Ed è vero che in genere le imprese mafiose, grazie alla violenza, hanno occupato fette di mercato che non avrebbero potuto occupare senza far ricorso ad essa. Per cui se quell’impresa si è procurata dei vantaggi competitivi usando la violenza, lo Stato che la confisca e la toglie dal mercato fa solo un piacere agli altri competitori che rispettano le leggi. Insomma, distruggere un’impresa mafiosa è più utile per la collettività che farla tornare a funzionare. In questo modo il posto da essa occupato viene preso da imprenditori a cui con la violenza aveva sottratto clienti e affari.

Ma le cose non sono così semplici. Un’impresa, anche se mafiosa, produce o no merci? Fa lavorare persone? Fa acquisti di altre merci e coinvolge altri soggetti economici, fa circolare la ricchezza? E in questo caso, per quelli che ci lavorano e ci girano attorno, quella è mafia o è opportunità economica?

Non è un problema semplice colpire i mafiosi senza danneggiare l’impresa e coloro che di quella attività ne hanno beneficiato per via legale (lavoratori, impiegati, fornitori, etc.). Ma anche in questo caso si deve applicare lo stesso criterio utilizzato per le imprese legali che si sono comportate illegalmente, cioè bisogna separare la proprietà dall’attività. Insomma, si deve interrompere la ricchezza del mafioso non quella prodotta dalla sua azienda. Credo che questa sia una seria iniziativa antimafiosa. E’ tempo di una più radicale messa in discussione dell’applicazione di una legge fondamentale come quella della confisca dei beni e delle imprese dei mafiosi. Ma sempre con la volontà di dimostrare che delinquere non conviene. Se invece, al di là delle intenzioni, un’impresa funziona quando è gestito dai clan e chiude quando rientra nelle mani dello Stato, tutta la pedagogia dell’antimafia viene messa in discussione.