Situata nell’ex complesso monumentale del “Buon Pastore”, la Casa Internazionale delle Donne a Roma è un laboratorio attento alle politiche di genere, un centro cittadino, nazionale e internazionale di accoglienza, incontro, promozione dei diritti, della cultura, dei “saperi” e delle esperienze prodotte dalle e per le donne. Oltre ad offrire servizi e consulenze, lo scenario della Casa Internazionale è abitato da eventi di teatro, musica e spettacolo, che la rendono un centro propulsore della cultura e delle azioni delle donne. Abbiamo intervistato Loretta Bondì del Consiglio Direttivo per farvi conoscere questa realtà.

 

Come e quando è nata la Casa Internazionale delle Donne?

Innanzitutto ti posso dire che il nostro passato è il nostro prologo. Negli anni Settanta il movimento delle donne aveva occupato varie strutture che erano appunto considerate case delle donne. L’ex convento del Buon Pastore, l’attuale sede romana, fu occupato nell’87 da un gruppo di donne dopo lo sfratto della sede precedente di via del Governo Vecchio. Ai tempi era uno stabile in stato di abbandono e le donne lo rivitalizzarono iniziando ad organizzare una serie di attività, Così quell’ex convent del XVII secolo che un tempo ospitava donne che non si conformavano al costume dell’epoca (ex-detenute, lesbiche, donne che avevano rifiutato un matrimonio forzato) trovò una nuova vita in una sorta di continuità con la propria storia, ospitando e offrendo ascolto, accoglienza e aiuto a donne che per scelta non si adeguano al costume imposto dalla società patriarcale. All’inizio vi era una linea diretta con il movimento delle donne degli anni Settanta, poi nel tempo la Casa Internazionale delle Donne si è aperta ad altre interlocutrici e interlocutori, in rapporto diretto con gli attori della città. Nel 2000 è arrivato infine l’accordo con il comune di Roma, che ha regolarizzato l’occupazione.

Oggi quali attività si svolgono al suo interno? Quante associazioni e realtà vi hanno sede?

Attualmente ci sono dalle 32 alle 35 associazioni che fanno capo a questo consorzio. Esse svolgono attività a tutto campo, dall’assistenza psicologica, a quella legale, sanitaria, ai servizi per la violenza contro le donne, al supporto alla genitorialità. Abbiamo due archivi storici e una biblioteca, un asilo nido, un centro congressi e un ostello per sole donne e svolgiamo svariate attività culturali come la rassegna multimediale La Casa (s)piazza. 30mila persone ogni anno visitano la Casa e intrattengono relazioni con essa, utilizzano i suoi servizi. È importante notare che la Casa delle Donne non è solo luogo di aggregazione, un recipiente passivo di visitatori e visitatrici, ma luogo di relazione, sia con interlocutori più prossimi come gli abitanti del quartiere e della città, sia con una serie di comunità che hanno diritto di cittadinanza dentro la casa, come le comunità di migranti, profughi, rifugiati, il movimento globale delle donne. Abbiamo dunque una doppia veste: una propositiva, di attrattori e animatori culturali, attività, ed una ricettiva, in cui siamo teatro dei bisogni e delle espressioni altrui.

Ci sono servizi specifici per la violenza contro le donne?

Quello della violenza contro le donne è un fenomeno che purtroppo riguarda sette milioni di italiane. E i dati ci dicono che per l’80 per cento è violenza domestica. Dunque è una nostra esigenza fondamentale quella di dare ascolto a questo fenomeno. È un tema prioritario e varie associazioni ospitate all’interno della Casa se ne occupano. Io ad esempio faccio parte di Be Free, una Cooperativa sociale che ha come obiettivi il contrasto alla violenza sulle donne, al traffico di esseri umani e alla discriminazione. Ma ce ne sono anche molte altre. Inoltre è un tema che permea praticamente tutte le nostre attività, non solo quelle delle singole associazioni che vi hanno sede, ma anche direttamente della Casa Internazionale delle Donne. Ad esempio abbiamo fatto questo progetto molto innovativo che si chiama Scialuppa, portato avanti dalla Casa delle Donne assieme a tre associazioni, Il Cortile, Be Free e CoraRoma, che si propone di raggiungere le donne che si trovano in posizione di vulnerabilità.

Allargando il discorso al fenomeno in genere, sai darmi dei numeri?

Come ti dicevo, sono 7 milioni le donne in Italia colpite da qualche forma di violenza, da quella verbale, alla psicologica, fino ad arrivare al femminicidio. E per l’80 per cento dei casi non è una violenza sessuale, non ha niente a che fare con lo stupro a cui erroneamente si  pensa, ma si tratta di violenza di genere inflitta tra le mura domestiche. E non si pensi che sia un fenomeno tutto italiano. Una ricerca di tre anni fa condotta dalla Fundamental rights agency (Fra) della Unione europea mostra dati altrettanto sconcertanti: una donna su tre in Europa ha subito qualche forma di violenza di genere almeno una volta nella vita. Un quadro di queste proporzioni ci fa balzare agli occhi una considerazione: si tratta inequivocabilmente di un fenomeno culturale e strutturale. Non è emergenza, un raptus, un momento di follia di qualche caso isolato. Piuttosto è un fenomeno sistemico che ha le sue radici nella discriminazione di genere, in una visione asimmetrica delle relazioni che prevede che l’uomo abbia più spesso il potere e consideri la donna una sua proprietà, di cui fare ciò che vuole fino a massacrarla e ucciderla. In Italia c’è un caso di femminicidio ogni tre giorni se non sbaglio. Ed è molto difficile sradicare questa concezione patriarcale, complice anche l’assenza di campagne educative a tappeto. Di sicuro, parlare di questo fenomeno strutturale come di un’emergenza improvvisa non aiuta, anzi è la cosa più dannosa.

Quindi viene a cadere il luogo comune che sia stato l’aumento dei fenomeni migratori a aumentare i casi di violenza

Esattamente. Un’inchiesta pubblicata proprio oggi (21 settembre 2017, ndr) dal Sole 24 Ore dimostra che la violenza non ha passaporto: i dati mostrano che sia i casi di violenza domestica che i femminicidi nel nostro paese sono commessi in larga parte da italiani. Tuttavia in questo clima di caccia alle streghe contro i migranti è facile individuare nell’alterità di chi viene da fuori la causa di questi fenomeno di violenza. Ciò, oltre a non trovare riscontro in alcuna base fattuale, maschera il fenomeno ben più diffuso della violenza sui migranti ed i particolare  sulle donne migranti. Le donne che arrivano nel nostro paese sono una categoria particolarmente fragile, spesso si trovano in condizione di schiavitù e sono oggetto di violenza di vario tipo, vittime di traffico di esseri umani, sia da parte di italiani che di connazionali.

Esistono delle fasce di popolazione in cui è più diffusa la violenza di genere o è un fenomeno trasversale?

È totalmente trasversale, i numeri non lasciano dubbi su questo aspetto. Parliamo di un fenomeno che, come dicevamo, riguarda una donna su tre in Italia ed in Europa, dunque non riguarda una data estrazione sociale e culturale ma permea la nostra cultura nel profondo. Basta guardare le pubblicità per capirlo: quanti spot fanno leva sulla mercificazione del corpo femminile? Perdipiù pubblicità dirette anche a target molto diversi fra loro, dalla bibita, alla macchina di lusso.

Cosa consiglieresti di fare a una donna vittima di violenza?

Prima di tutto ascoltare per capire: un ascolto sincero, aperto e non giudicante. Capire cosa è avvenuto, la storia della donna che si ha davanti, e i suoi bisogni, capire se vuole o non vuole denunciare l’artefice della violenza. Ognuno vive contesti e situazioni diversi. In molti casi, soprattutto quando si tratta di violenza domestica, la vittima aveva un progetto d’amore e di vita che la lega all’aggressore, a volte ci sono bambini di mezzo. Dunque innanzitutto l’ascolto non giudicante. Poi ci sono tutta una serie di strumenti che le donne hanno a disposizione, come ad esempio i centri antiviolenza che accolgono e offrono un tetto alle donne che hanno necessità di abbandonare il luogo di convivenza, o gli sportelli di ascolto che sempre di più sono disseminati in Italia. In alcuni luoghi esistono servizi più specifici, ad esempio con Be Free portiamo avanti un’iniziativa unica a livello europeo: abbiamo aperto uno sportello antiviolenza all’interno del pronto soccorso dell’ospedale San Camillo – Forlanini di Roma che ha la caratteristica di avere due porte, una d’ingresso ed una sul retro, in modo che la donna, spesso accompagnata dall’aggressore, possa uscire senza dover affrontare un confronto col compagno violento.

E invece come si può intervenire con gli uomini artefici della violenza?

Esistono varie associazioni che si occupano di questo, come ad esempio Maschile Plurale. Il problema con gli uomini, quello che rende a mio avviso più difficile questo tipo di intervento, è che in molti casi si sono formati in un contesto talmente permeato da questa cultura che spesso non si rendono nemmeno conto dell’esistenza del problema, né della gravità dei loro atteggiamenti. Mentre per le donne la situazione è evidentemente insostenibile, per molti uomini potrebbe andare avanti così come è adesso, dato che la considerano la normalità e che considerano molti degli elementi problematici tasselli costituenti della loro identità.

Finora abbiamo parlato di soluzioni e strumenti che intervengono dopo la violenza. Invece cosa si può fare a livello più sistemico e di prevenzione?

Gli stereotipi e le discriminazioni di genere non sono innati ovviamente, ma dipendono dal contesto in cui i bambini e le bambine crescono e si sviluppano. Per cui è importante intervenire fin da subito, a livello culturale. È molto più facile intervenire su un bambino attraverso i testi scolastici le modalità di apprendimento, la relazione con gli insegnanti, piuttosto che andare a scardinare le credenze e le modalità relazionali di un adulto formato. Peraltro si tratta di adeguarci a quanto già previsto dall’ordinamento giuridico italiano e del diritto internazionale in quanto ai principi di non discriminazione e uguaglianza.Gli strumenti li abbiamo tutti, si tratta di capire come li facciamo percolare all’interno della stratificazione sociale, come possiamo far capire quanto siano dannosi questi stereotipi per lo sviluppo delle donne così come degli uomini e di relazioni sane fra di essi.

Tornando alla Casa Internazionale delle Donne, quali sono i prossimi passi? Sogni, progetti, prospettive per il futuro?

Nel corto raggio una delle iniziative più interessanti che abbiamo organizzato è un programma di educazione finanziaria gratuito rivolto alle donne. Abbiamo notato che uno dei maggiori problemi che ostacolano l’indipendenza femminile è proprio la carenza  di una formazione di base che possa permettere loro di gestire rapporti economici, inclusa la contabilità domestica. Il corso sarà tenuto da esperte della Banca d’Italia, della Global Thinking Foundation, da giornaliste finanziarie di testate importanti come il Corriere della Sera, e così via e si terrà a ottobre con una replica già prevista a gennaio visto il successo riscontrato.

A medio raggio siamo parte della campagna “Non una di meno” che ha portato in piazza 250mila donne il 26 novembre scorso. Vogliamo avere sempre più eco e proseguire dialogo con donne e istituzioni.

Sul lungo termine invece vogliamo rendere la Casa delle Donne uno spazio sempre più aperto e accogliente, aumentare in maniera esponenziale i visitatori e le visitatrici – anche se per adesso non ce la siamo cavata male – e influenzare il dibattito pubblico su alcune tematiche: la violenza sulle donne è una di queste, la salute delle donne un’altra. Come Casa delle Donne abbiamo partecipato alla stesura del rapporto presentato a luglio a Ginevra di fronte alla commissione che vigila sull’attuazione della Cedaw, la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna dell’Onu. Il successo di iniziative come questa ci dà la misura dell’importanza del percorso che stiamo facendo e ci confermano che la strada intrapresa è quella giusta.