Prima di incontrare il protagonista della storia, un giovane bengalese che ce l’ha fatta aprendo alcune lavanderie a Roma, avevo intravisto in questa esperienza una banale analogia con la trama de “I Jefferson”. Chi ha almeno quarant’anni se la ricorderà, una vecchia serie americana di successo degli anni ’70-‘80 che, per puro caso, ho scoperto essere trasmessa ancora oggi da alcune emittenti locali. George e Louise Jefferson sono una coppia nera newyorkese che, grazie allo spirito imprenditoriale di lui (aveva aperto ben 7 lavanderie) si trasferisce dalla periferia (il Queens) nella centralissima Manhattan, in un condominio di bianchi benestanti. La serie, attraverso il linguaggio della commedia, poneva all’attenzione del pubblico il tema di fondo del lavoro come strumento di riscatto e forma di integrazione, capace di abbattere anche alcune differenze di classe. E’ solo cinema, pensavo. Invece…

Appuntamento lunedì mattina all’interno di una lavanderia di Torpignattara, zona est di Roma, per incontrare questo imprenditore di successo. Si chiama Raf, classe ’71, cittadino bengalese in Italia da 28 anni, sposato con una donna europea. Arrivato in Italia a 18 anni “perché mi piaceva, avevo degli amici” riesce a ottenere subito il permesso di soggiorno “è stato facile, in quel periodo c’era la sanatoria”. Inizia a lavorare vendendo fiori ai semafori, come fanno in tanti. Dopo soli 15 giorni un passante gli offre un lavoro “vero”, ma più faticoso, che lui accetta subito. Così per i 5 anni successi lavora come marmista.

In questi anni Raf matura come uomo e cresce in lui, sempre più, lo spirito di rivalsa. Decide allora di acquistare un piccolo banco mobile a Piazza dei Mirti, in zona Centocelle. “Da lì – sottolinea con orgoglio Raf – è cominciato il business, ho aperto altre quattro bancarelle con mia moglie e mio fratello che seguivano l’attività”. Nel frattempo lui inizia a lavorare sui set cinematografici come attrezzista di preparazione. “Lì ho conosciuto un produttore esecutivo italiano, la cui famiglia viveva a New York e gestiva delle lavanderie”.

Il racconto, al di là delle inaspettate coincidenze con la serie televisiva, si fa davvero interessante. Anzi, potrebbe essere il soggetto di un nuovo film ambientato nella Roma delle periferie, con sempre meno botteghe tradizionali e sempre più attività artigianali avviate nei laboratori di chi viene da molto lontano. Ma soprattutto, un film che smonta diversi luoghi comuni, dagli immigrati che tolgono il lavoro agli italiani al razzismo di questi ultimi nei confronti degli stranieri.

Con il racconto giungiamo agli anni ’90. “Questo produttore mi convince a prendere una lavanderia e mi aiuta a ottenere un prestito bancario facendo anche da garante. Prendo in gestione il primo negozio e l’anno successivo un secondo. Poi inizio ad aprire io dei negozi.”. Parliamo di lavanderie, quelle monoprezzo e in franchising che vediamo ormai in tutti i quartieri e che in questo quadrante della città, molto popoloso, sono veramente numerose. Adesso, dopo 20 anni dalla prima, Raf ne ha 30 di lavanderie, ma anche un albergo con 5 camere e un ristorante in zona Termini. Complessivamente, offre lavoro a 200 dipendenti, tra bengalesi, rumeni, ucraini e anche molti italiani.

E’ difficile fare l’imprenditore in Italia?

Si. E’ abbastanza difficile prendere la licenza. Le tasse sono molto alte, così come gli affitti per i locali.

La difficoltà più grande in questi 20 anni di attività, dalla prima lavanderia ad oggi?

Nella fase iniziale, economicamente mi ha aiutato molto il mio amico produttore, soprattutto per accedere al mutuo. In generale però non ho avuto grosse difficoltà, avevo voglia di lavorare dalla mattina alla sera e lavoravo, in negozio e anche sul set.

E la burocrazia o il fatto che lei non fosse italiano? Ha avuto qualche problema con i pregiudizi?

In ogni paese c’è il bene e il male, ma su questo punto non ho avuto grandi difficoltà. Molti italiani mi hanno dato una mano. Io vivo per questo Paese, per me è tutto, per me è il paradiso. Se ti comporti bene, le persone ti apprezzano. Quando ho aperto questo negozio (a Torpiganattara, circa 18 anni fa ndr) vedevo passare le persone, gli anziani che borbottavano qualcosa sul fatto che questo negozio fosse dei neri. Le stesse persone, dopo un mese, mi abbracciavano, mi aiutavano, ne parlavano bene dicendo che ero un bravo ragazzo e i clienti aumentavano. Con l’amore si può convincere tutti.

La sua attività imprenditoriale ha avuto anche degli effetti positivi sulle comunità di immigrati?

Assolutamente. Bisogna comportarsi bene, se si fa in questo modo arrivano i risultati. Per me è stato così. Ci sono molti bengalesi a Roma che lavorano nel commercio e stanno molto bene. (Mi racconta che i suoi rapporti con la comunità bengalese sono buoni, ma non ha legami troppo stretti, ndr)

Lei dà lavoro a molta gente e a molti italiani. A chi pensa che gli stranieri vengono qui e rubano il lavoro agli italiani cosa risponde?

Non è assolutamente vero. Io sono partito dalla strada. Gli italiani hanno un brutto vizio, non vogliono dare niente ma vogliono solo ricevere. Per carità, questo è il vostro Paese e io ho rispetto degli italiani. Ma le persone che lavorano con noi non pensano questo, perché tutti diamo qualcosa e riceviamo qualcosa. Noi bengalesi non mandiamo a quel paese nessuno e questo è già un buon vantaggio, perché il titolare è tranquillo. Vogliono solo bengalesi. In tutta Italia, nelle cucine dei ristoranti trovi sempre bengalesi.  Perché non rispondono, bene o male vanno comunque d’accordo. Molti italiani invece non hanno voglia di lavorare. Io metto gli annunci per trovare personale per le lavanderie, ma non si presenta nessun italiano (nella lavanderia sono tutti bengalesi, ma dalla sua apertura collabora una donna italiana di Roma, “siamo come fratelli” mi dice Raf – ndr). Si sta perdendo tutto l’artigianato degli italiani, perché non c’è voglia di lavorare. Quale ventenne italiano vede lavorare per 6 o 8 ore a tagliare e cucire o stirare? Così anche nelle cucine, chi vuole fare i lavapiatti? Lo facciamo noi. Perché per noi va bene questo lavoro. Noi non rubiamo il lavoro degli italiani. Quando gli italiani emigrarono in America e c’era fame, lavoravano. Adesso non c’è più tanta fame. Vale anche per noi, veniamo qui perché c’è fame e lavoriamo. Se mi offri il lavoro io lo faccio, mi sporco le mani. Questo i giovani italiani non lo fanno. Non rubiamo il lavoro, assolutamente. Cerchiamo lavoro e prendiamo lavoro perché c’è voglia. Se gli italiani non hanno voglia non devono accusarci. Altra cosa importante: c’è anche chi pensa che gli extracomunitari hanno dei vantaggi nel commercio. Assolutamente, le leggi sono uguali per tutti.  E’ solo ignoranza. Noi paghiamo le tasse come gli italiani. E se ci sono dei vantaggi sono gli stessi per gli italiani.

Intervista di F. Minnella