In Italia sempre più persone sono costrette a vivere in strada, condannate all’invisibilità e a subire soprusi di ogni tipo. L’associazione Avvocato di Strada lotta ogni giorno per restituire dignità alle persone senza fissa dimora, offrendo assistenza e consulenza legale gratuita. Con 49 sedi, quasi mille volontari e 3000 pratiche aperte ogni anno è lo studio legale più grande d’Italia e anche quello che fattura meno. Antonio Mumolo è il Presidente nazionale dell’associazione che da oltre diciotto anni si occupa dei diritti degli ultimi.

 

Presidente, quando è nata l’associazione Avvocato di Strada e con quali obiettivi?

L’associazione è nata nel 2000 con l’idea di provare a dare una risposta ad una fame diversa che c’è in strada, che è la fame di diritti. Nasce all’interno di un’altra associazione bolognese storica, Piazza Grande, di cui sono socio fondatore. Con loro facevo i miei turni di volontariato per distribuire tè caldo e coperte alle persone senza dimora, però ogni volta che uscivo in strada c’era sempre, chi, conoscendo la mia professione, mi chiedeva consigli. Allora ho deciso di dedicare quelle ore che si possono dedicare al volontariato utilizzando la professione, l’arma del codice per rispondere a quel bisogno. Ho iniziato a cercare tra i colleghi, siamo partiti in due e poi sono arrivati anche altri volontari, studenti universitari, pensionati, a poco a poco siamo diventati tanti.

Chi sono oggi le persone senza fissa dimora?

Quando abbiamo iniziato noi c’erano persone molto povere e nella maggior parte dei casi avevano anche altri problemi di natura fisica, di salute o di natura psichica. Questa tipologia si è modificata negli ultimi dieci anni e in strada ci sono sempre più persone che semplicemente sono diventate povere. In strada abbiamo oggi padri separati, che non riescono a trovare una sistemazione, persone che vengono licenziate dai 50 anni in su e che esauriscono tutti i loro risparmi (e se non c’è una rete familiare intorno finiscono in strada), imprenditori falliti, piccoli artigiani che hanno perso tutto, piccoli pensionati al minimo che non riescono più a pagare l’affitto e sono in lista per ottenere una casa. Persone che non hanno nessun tipo di problema se non la povertà estrema e che non avrebbero mai pensato nella loro vita di finire in strada.

Persone senza fissa dimora, ma anche senza diritti. Così si diventa invisibili?

È assolutamente così per un problema sostanzialmente normativo. In Italia purtroppo alla residenza sono legati una serie di diritti fondamentali e le persone che finiscono in strada perdono la residenza, che tecnicamente è l’iscrizione alle liste anagrafiche del Comune in cui si risiede. La residenza si traduce in un documento che è la carta d’identità dove è appunto indicata la residenza. Ora, quando una persona viene sfrattata e in quell’appartamento ci va ad abitare qualcun altro che chiede e ottiene la residenza, chi era residente precedentemente viene cancellato, diventando così completamente invisibile e senza nessuna possibilità di riemergere dalla strada, nessuna.

Senza residenza non si può lavorare, nessun datore di lavoro assume qualcuno senza carta d’identità, non si può aprire una partita iva, si perde il diritto alla salute, non si ha più il medico di base e si ha diritto solo alle cure di pronto soccorso, si perde il diritto di voto, garantito dalla nostra Costituzione, si perde il diritto alla difesa, perché non si può ottenere il cosiddetto patrocinio a spese dello Stato. Quello della residenza è il più grosso problema che incontrano le persone in strada.

E come si può superare questo problema?

Si supera con un avvocato perché la nostra legge stabilisce che chiunque ha diritto alla residenza, sia cittadini italiani che stranieri muniti di regolare titolo per stare in Italia, ma il problema è che i Comuni non danno la residenza. Inoltre la legge stabilisce anche che, quando una persona vive in strada, se vive in un dormitorio ha diritto alla residenza in quel dormitorio, e in quel caso c’è una via e un numero civico, se invece vive proprio in strada, ad esempio su una panchina o alla stazione, ha diritto ugualmente alla residenza in una via fittizia, cioè inesistente, di cui ogni Comune si deve dotare. Ad esempio, a Roma c’è via Modesta Valenti, dal nome di una clochard storica romana che morì alla stazione Termini, a Firenze c’è via Lastrucci, a Bologna si chiama via Tuccella, dal nome da un nostro utente, che morì in strada picchiato da alcuni ragazzi. Quindi chiunque può richiedere la residenza e i Comini dovrebbero darla.

E perché i Comuni non la danno?

I Comuni non la danno perché cercano di evitare di avere dei cittadini poveri, questa è purtroppo la realtà. E quindi se le persone vanno da sole a volte non rilasciano loro nemmeno il modulo e quando i Comuni dicono di no bisogna fare ricorso. Sul nostro sito ci sono tutti i bilanci sociali e al primo posti tutti gli anni c’è il diritto alla residenza che è uno dei più grandi problemi, perché le persone non escono dalla strada senza una carta d’identità.

Però anche chi vive nelle case occupate non può ottenere la residenza, è così?

In passato succedeva che gli immobili abbandonati venivano occupati dalle famiglie sfrattate, cosa che i Comuni hanno sempre tollerato perché comunque si riusciva a gestire la situazione e perché poi si traghettavano queste persone verso case di edilizia residenziale pubblica. Ad un certo punto il governo ha stabilito con l’articolo 5 del decreto Lupi, che all’interno di una casa occupata non è possibile prendere la residenza e non si possono collegare le utenze. Noi come Avvocati di Strada abbiamo cercato di spiegare che si tratta di famiglie che non hanno nessuna altra possibilità, ma l’articolo è stato approvato. Non voglio giustificare l’occupazione, che è comunque una cosa sbagliata, ma togliere il diritto alla residenza non ha aiutato questa persone, anzi ha aggravato la loro posizione.
La situazione ad un certo punto è diventata insostenibile e molti sindaci si sono lamentati con il Ministero dell’Interno, perché la questione è di competenza del Ministero dell’Interno, che ha emanato una circolare in cui stabiliva che la residenza non si poteva dare nell’immobile occupato, ma nella via fittizia, cosa che però dal punto di vista giuridico crea ulteriori problemi. Adesso con il decreto Minniti c’è stato un’ulteriore modifica della norma che dice che il sindaco, quando ci sono questioni particolari, nel caso di figli minori, può contravvenire al decreto Lupi e assegnare la residenza, e può consentire in alcuni casi l’allaccio almeno dell’acqua.

Il vostro volontariato ha un carattere fortemente tecnico, ma anche molto concreto. Quante persone avete assistito?

Non abbiamo fatto il conto, ma sicuramente oltre 30.000 persone. Visto che a Bologna era andata così bene, con circa 60 avvocati più i volontari, abbiamo avuto l’idea di provare a replicare l’esperienza anche in altre città italiane e poco a poco siamo arrivati ad essere presenti in 49 città italiane, siamo quasi mille avvocati.

Diciotto anni di attività, quali sono ancora gli obiettivi da raggiungere?

Noi continueremo ad aprire sportelli di Avvocati di strada finchè ce ne sarà bisogno. Ma non facciamo solo quello, proviamo anche a costruire una cultura diversa dei diritti della povertà con tante iniziative con le scuole e le università. L’idea è quella di provare a combattere quello stereotipo per cui se una persona diventa povera è stata colpevole di qualcosa, non è stata capace, e quindi se è colpevole è una persona che può essere emarginata, può essere derisa, picchiata umiliata perché si trova in quella situazione per una sua colpa. Noi cerchiamo di dare il nostro piccolissimo contributo far capire a tutte le persone che la povertà non è una colpa, ma uno status, una condizione in cui chiunque potrebbe trovarsi. Proviamo ad aiutare queste persone dal punto di vista giuridico, facendo rispettare i loro diritti, cercando di far capire a tutti che anche le persone senza dimora sono cittadini come gli altri.

Ludovica Siani