Una casa per tutti è un’impresa possibile o è un’utopia? Cent’anni di politiche abitative sociali messe in campo nei paesi industrializzati sembrano aver fallito, non sono riuscite cioè ad eliminare il problema dell’esclusione abitativa. È questa la critica e l’analisi che Antonio Tosi, già professore di Sociologia Urbana e Politiche per la casa al Politecnico di Milano, fa nelle pagine del suo libro “Le Case dei poveri. È ancora possibile un welfare abitativo?” (Mimesis edizioni, 2016, pp. 182). Nei vari capitoli analizza come questo deficit non sia mai stato colmato e imputa questa grande responsabilità al fatto che le politiche per la casa si siano rivelate nel tempo “poco sociali”. Attenzione particolare, a cui l’autore dedica un intero capitolo, è riservata al caso italiano e alla possibilità di superare i limiti storici del nostro sistema di welfare abitativo.

Abbiamo intervistato il Prof. Tosi per discutere del suo libro e per tracciare la storia delle politiche per la casa, un tema che continua ancora oggi ad essere molto attuale e ad accendere i dibattiti.

 

Allora Prof Tosi, che cosa non ha funzionato nelle politiche abitative sociali messe in campo finora? Perché si sono rivelate “poco sociali”?

Il senso di questa espressione politiche abitative “poco sociali”, che ho usato e che è alla base del libro, rivela quanto siano politiche che in tutti i paesi europei, ma in modo molto accentuato in Italia, hanno favorito una situazione di normale disagio abitativo, che vuol dire in definitiva che i problemi abitativi degli strati medio bassi o medi hanno sfavorito e svantaggiato le domande delle persone povere, molto povere o in condizione di marginalità. Questo sembra evidente sia nella ripartizione delle risorse destinate alla casa sociale in generale, sia nelle formule di sistemazione abitativa che sono state offerte ai poveri per i quali nel libro ho usato addirittura l’espressione “maltrattamento”. In Italia diciamo che l’indicazione più chiara viene da quello che abbiamo iniziato anni fa a chiamare housing sociale perché, è vero che ci sono delle esperienze che si rivolgono a popolazioni molto povere, ma il grosso degli investimenti in questo campo, soprattutto per quelli che utilizzano i fondi immobiliari istituiti anni fa dallo Stato, sono indirizzati a situazioni di classe media o medio bassa. Certamente nel complesso non mi sembrano politiche in grado di dare un contributo importante al problema della povertà abitativa.

Cioè i più poveri non sono stati i maggiori destinatari delle politiche abitative sociali, è così?

No, anzi diciamo che sono stati quasi “puniti”, considerando anche che l’entità delle risorse e degli sforzi in questo campo in Italia è stata piuttosto esigua. Però un esempio positivo nei confronti delle situazioni di povertà è stata la recente decisione di mettere mano alla ristrutturazione delle case popolari. Per il resto io non vedo in Italia iniziative che siano andate a vantaggio di queste popolazioni.

E come vanno adattate le politiche generali alle situazioni di grande povertà?

Innanzitutto bisogna distinguere tra situazioni di povertà e di grande povertà, perché un conto sono situazioni di povertà di reddito, di persone che hanno redditi molto modesti ma che non hanno grandi problemi che si cumulano con quelli della povertà reddituale, un altro sono le situazioni di povertà estrema che indichiamo con il termine di esclusione sociale e marginalità sociale. Questi vanno trattati probabilmente in maniera diversa.

In due importanti capitoli del libro lei analizza due diverse esperienze di esclusione abitativa, quella degli homeless e degli immigrati. E’ possibile costruire delle politiche sociali per eliminare il rischio di una crescente marginalità abitativa? Che strategie bisogna mettere in campo?

Appunto, quando dico che va fatto uno sforzo aggiuntivo rispetto alle normali politiche abitative sociali suggerisco più direzioni diverse: una è quella di adattare le politiche generali e l’altra è di aggiungere delle misure specifiche indirizzate proprio a questa popolazione. L’idea è che, ammesso anche potessimo decidere immediatamente in Italia di fare delle buone politiche abitative sociali, però costituite dagli strumenti che abbiamo utilizzato in questi ultimi cent’anni, il problema abitativo dei poveri non lo risolveremo neanche se aumentassimo le risorse messe a disposizione e gli sforzi. Siccome per di più non siamo di sicuro sulla strada di inventare chissà quali nuove politiche abitative o di quale rilancio delle politiche abitative sociali in Italia, la situazione è anche peggio.

In Europa quali sono state le esperienze più innovative?

Dalle esperienze europee forse le meno contestate sono le cosiddette strategie integrate contro la homelessness, cioè a livello di solito nazionale e in qualche caso regionale, viene lanciata una politica che ha l’obiettivo di ridurre e per poi avvicinarsi all’eliminazione della homelessness, cioè mai più homeless nel paese. Sono iniziative che richiedono un investimento finanziario, una decisa volontà politica, poi un coordinamento forte tra elementi del sistema non solo abitativo, ma anche di welfare. Non è un caso che le esperienze che si sono più avvicinate a risultati apprezzabili sono i paesi che hanno discreti sistemi di welfare. Forse il caso più interessante, che si avvicina di più agli obiettivi, è quello della Finlandia, anche se altri paesi un po’ si avvicinano.

E’ possibile oggi pensare ad un miglioramento delle politiche abitative? Come?

Non possiamo pensare di arrivare velocemente ad avere un sistema come quello finlandese o quello danese. Però, con un ragionevole aumento dell’offerta di edilizia popolare, di tipo tradizionale, cioè le case popolari non l’housing sociale, un’estensione del fondo sociale per l’affitto, aggiungerei anche misure contro la povertà non abitativa ma generale, ad esempio reddito minimo, di inclusione o altre forme che sono presenti in tutti i paesi europei, si darebbe un contributo importante per rendere possibile la soluzione di questo problema.

Nel libro cito altri esempi. Infatti, in Europa si sono accorti che le politiche normali non risolvono i problemi dei poveri e quindi hanno inventato il diritto esigibile alla casa, come il caso francese, ma non lo suggerirei per l’Italia, e poi quello che in Europa si chiama il “molto sociale”, very social, très social cioè un’offerta abitativa per popolazioni povere o con problemi di integrazione con un accompagnamento sociale, sostegni sociali, etc. Si tratta però di interventi che devono aggiungersi alle politiche generali altrimenti perdono di efficacia e rendono più probabili le conseguenze negative delle politiche speciali, cioè stigmatizzazioni o ghettizzazioni. L’altra condizione è che devono essere case, cioè bisogna offrire case che permettano esperienze abitative vere che devono rispettare i valori e le funzioni che attribuiamo all’abitare. Ecco, questi sono solo esempi per dire che non è irrealistico quello che sostengo come fondamento del libro e cioè che si debbano fare delle politiche che superino lo svantaggio storico che le politiche sociali hanno mostrato nei riguardi dei poveri.

Ludovica Siani