Per la coesione e lo sviluppo del nostro Paese occorre puntare sugli ultimi. Tra questi, per varie ragioni, vi sono le persone in crescita, in particolare nelle zone svantaggiate sotto il profilo socio-economico.

Perché? In primo luogo, bambini e ragazzi sono diventati una categoria svantaggiata sotto il profilo demografico. Oggi nel nostro Paese per ogni 100 giovani ci sono 148,6 anziani. E’ noto che siamo uno dei Paesi più vecchi al mondo. Non solo per il vasto numero di anziani, quanto soprattutto per la grande contrazione della fecondità: nasce in media poco più di un bambino per donna (il tasso di fecondità è di 1,4). Questo bambino è stato probabilmente pensato, desiderato, voluto molto a lungo prima di nascere. Quasi sicuramente non avrà fratelli. E crescerà circondato dalle attenzioni di due genitori, quattro nonni e diversi zii. Questa iper-attenzione verso i nostri bambini – i nostri figli – contrasta in modo impressionante con l’ipo-attenzione che le politiche pubbliche hanno verso i bambini e i ragazzi in generale. E produce cambiamenti profondi di carattere sociologico e pedagogico, che sono sotto gli occhi di chiunque si occupi dei temi educativi: acquisizione più lenta e faticosa dell’autonomia, crescente insicurezza, difficoltà a rispettare i limiti, prevalenza della protezione rispetto alla promozione.

In secondo luogo, i bambini e i ragazzi sono ultimi tra le priorità delle politiche pubbliche. La spesa sociale in Italia è il 20,5% del PIL, ma solo l’1,1% del PIL è destinato alla protezione sociale per famiglie con bambini o adolescenti. Le nostre città, nonostante roboanti proclami e promesse da campagna elettorale, sono luoghi inospitali per i bambini e per le loro famiglie: scarsità di verde pubblico, circolazione ridotta e difficoltosa per i passeggini, traffico selvaggio, scarsità di luoghi pubblici destinati alle attività ricreative e sportive, edifici scolastici spesso inadeguati.

Infine, troppi ragazzi o sono già esclusi socialmente o sono a crescente rischio di esclusione sociale. Infatti i dati sulla povertà sono allarmanti: avere figli, soprattutto per le famiglie monogenitoriali, le coppie giovani o con bassi livelli di istruzione – è diventato uno dei fattori di rischio del basso reddito: nel 2012 le famiglie in povertà relativa sono aumentate del 4,2% tra quelle con due figli e del 6,2% tra quelle con tre figli. E ci sono due milioni di famiglie in povertà relativa: un minore di 18 anni su cinque. E sono un milione, il 10% del totale, i bambini e gli adolescenti in povertà assoluta, di cui la metà al Sud.

L’esclusione sociale è multifattoriale: crescere in una famiglia povera condiziona le possibilità dei bambini e dei ragazzi sotto il profilo del livello di istruzione e della futura occupazione, aumenta il rischio di avere problemi di salute e dipendenze, di vivere meno a lungo, di incorrere nell’illegalità. E di formare una nuova famiglia povera. L’istruzione è universalmente considerata un fattore di tenuta sociale e di crescita economica: aumenta le opportunità delle persone e crea coesione, cittadinanza e sviluppo sul piano comunitario.

La nostra scuola fa i conti con questo stato di cose. Nata con l’Unità d’Italia per alfabetizzare le masse povere da Nord a Sud, fatica a trattenere proprio chi potrebbe trarre maggiore vantaggio dall’istruzione. Perché è un sistema che presenta ancora numerose rigidità, dal punto di vista organizzativo e didattico: le risposte che la scuola fornisce spesso non sono pensate per ogni bambino o ragazzo, ma per un bambino o ragazzo standardizzato, che forse non esiste, ma che intercetta bene soltanto il livello socio-economico medio. Si fa ancora troppa fatica a rispondere ai bisogni di ciascuno con strumenti diversi e attenzione per passioni, talenti e fragilità di ogni persona in crescita. Vi sono poi altre debolezze di sistema: le poche risorse a disposizione, i molti e numerosi oneri burocratici, una canalizzazione rigida dei percorsi formativi – che separa nettamente a 14 anni gli indirizzi “teorici” da quelli “tecnico-pratici” – e un sistema di formazione che produce risultati disomogenei, a macchia di leopardo, con tanti buchi in qualità e in quantità dell’offerta.

E’ così che vengono a coincidere perfettamente sulla mappa le sacche dell’esclusione economica e sociale e quelle della povertà di istruzione e della dispersione scolastica. Perdiamo oltre un ragazzo su tre nei quartieri dell’emarginazione di Napoli, Palermo, Bari ma anche in numerose periferie urbane e sociali del Centro-Nord i dati sono preoccupanti.

Come ha ricordato di recente con grande chiarezza Carlo Borgomeo nel suo libro, “L’Equivoco del Sud”, i divari nelle opportunità vanno ben oltre le zone geografiche e i divari di reddito. Riguardano ovunque il tessuto complessivo dei servizi alla persona, alla comunità, le opportunità educative e di lavoro, le possibilità di fare impresa. Partire dagli ultimi attraverso le politiche per la coesione e lo sviluppo è la chiave per la riduzione di tali divari.

Dal punto di vista del decisore pubblico tutto ciò significa in primo luogo investire nelle politiche educative nelle zone di massima esclusione. Investire in una scuola che funziona bene, che non lascia indietro chi parte con meno, che aiuta a creare occasioni di promozione individuale, fornendo a tutti e ciascuno gli strumenti per l’esercizio della cittadinanza e le conoscenze e competenze irrinunciabili per aspirare a un primo lavoro legale. E, inoltre, costruire un’offerta educativa integrata con il territorio, che renda possibile la formazione permanente e ripetuta nel corso della vita, che accompagni la crescita attraverso occasioni di socialità e di cultura,  che crei promozione sociale. Le politiche educative devono poi potere e sapere incrociare le politiche sociali, sostenendo adeguatamente le famiglie fragili ed in particolare le donne che sono, insieme, la parte della società che più patisce le forme persistenti di esclusione e in potenza il fattore chiave per lo sviluppo e la coesione.

Quali sono le politiche che presentano il grado maggiore di efficacia sotto questi profili? Innanzitutto, colmare il divario nell’offerta educativa per la prima infanzia. Un bambino nato al Centro-Nord ha oltre tre volte le possibilità di un coetaneo del Sud di accedere al nido. Riempire questo gap significa dare occasioni importanti di apprendimento e socializzazione precoce che si riverberano positivamente sul percorso formativo successivo, come dimostra anche il documento OCSE “Starting strong”, con effetti molto positivi anche nel sostegno alla genitorialità e nell’autonomia delle mamme. Occorre poi rendere la scuola meno rigida e più incentrata sulle esigenze di ciascuno, dando di più a chi parte con meno. E’ parte del lavoro iniziato al Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca dal 2011 per il contrasto e la prevenzione della dispersione scolastica: rafforzare gli apprendimenti fin dalla scuola di base, soprattutto in italiano, inglese e matematica, con attività per gruppi di livello e ore aggiuntive per chi mostra fragilità precoci; rompere la rigida suddivisione disciplinare; puntare sulla laboratorietà, sull’apprendimento in situazione e nel territorio; integrare l’offerta educativa tradizionale con attività sportive, ricreative, artistiche pomeridiane, con l’aiuto di educatori e figure adulte di riferimento diverse dai docenti curricolari; introdurre docenti tutor e percorsi personalizzati di ri-orientamento; fornire percorsi di seconda occasione per chi lascia la scuola. Sono queste le azioni, già sperimentate con successo negli ultimi vent’anni da reti di scuole, Enti Locali e privato sociale. E’ in questa direzione che vanno le oltre 200 reti che operano in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, grazie al bando del MIUR finanziato con risorse europee. Ed è nella medesima direzione che si muove il bando appena pubblicato, rivolto alle scuole di tutta Italia, in attuazione del Decreto “Istruzione riparte”, per ulteriori 15 milioni di euro. Leggere bene i risultati di queste politiche sarà l’ulteriore decisivo compito per il decisore pubblico.

Tutto questo può funzionare. I divari si possono ridurre partendo dalla scuola. A patto che non sia solo dalla scuola che, in perfetta solitudine, ci si attende le risposte. Occorre che finalmente le politiche per gli ultimi entrino a pieno titolo nell’agenda generale per il Paese. Non con un ruolo secondario, ma con il ruolo da protagonista di cui hanno bisogno, per funzionare in modo integrato e per dispiegare i propri benefici sull’intera comunità, rompendo i circoli viziosi dell’esclusione e senza generare nuove ulteriori forme di dipendenza dall’assistenza pubblica. Mettere nelle mani dei più giovani le opportunità per un futuro migliore è il primo, fondamentale passo da compiere. Non c’è obiettivo politico più urgente e ambizioso.