La violenza contro le donne si combatte partendo dall’educazione all’affettività nelle scuole e dalla formazione ad un uso consapevole dei media. Ne è convinta Lorella Zanardo, attivista, scrittrice e coautrice del documentario “Il corpo delle donne” che ha denunciato la rappresentazione del femminile in tv.

Era il 2009 quando veniva diffuso quel documentario  che mostrava, una dietro l’altra, le immagini dei corpi femminili trasmesse dalla televisione a partire dagli anni ’80. Seni, fondoschiena, gambe insistentemente ripresi dalle telecamere e sbattuti in faccia a milioni di italiani perfettamente abituati a quella rappresentazione volgare ed umiliante della donna.

“Il corpo delle donne”: è questo il titolo di quel documentario firmato da Lorella Zanardo, Marco Malfi Chindemi  e Cesare Cantù che denunciava l’uso del corpo femminile in tv, quella cancellazione dell’identità delle donne che stava avvenendo sotto gli occhi distratti e assefuatti di tutti.

Da allora l’impegno di Lorella Zanardo, attivista e scrittrice, è proseguito con l’ideazione del percorso educativo Nuovi Occhi per la TV, che propone l’educazione all’immagine per i giovani come strumento di cittadinanza attiva. L’abbiamo intervistata e abbiamo affrontato con lei il tema della violenza contro le donne, strettamente connesso all’educazione nelle scuole e pericolosamente legato alla fruizione e all’uso inconsapevole dei media.

 

“Il corpo delle donne” denuncia l’uso del corpo femminile in televisione, evidenziando come un certo tipo di rappresentazione della donna costituisca una forma di violenza. Puoi parlarci di questo documentario?

Voglio sottolineare, intanto, che gli autori sono due uomini e una donna. Questo è importante perché sin dall’inizio l’intento non era quello di fare una denuncia contro gli uomini ma insieme agli uomini. Io non credo in una società divisa in due e non mi sento in lotta contro gli uomini. Il lavoro da fare per comprendere le radici della violenza contro le donne va fatto insieme agli uomini.

Il documentario è entrato ormai nella storia non solo italiana ed il libro è diventato un classico utilizzato anche in moltissime scuole. Con questo documentario volevamo porre l’attenzione su ciò che era sotto gli occhi di tutti ma che, diluito negli anni, aveva perso d’impatto, pur entrando profondamente nelle coscienze, ovvero l’oggettivazione del corpo femminile, che è una forma di violenza neanche troppo celata.

Si tratta di un fenomeno spiegato molto bene dai sociologi: rendendo le donne un oggetto si mette in atto un processo di deumanizzazione. Le riprese che si concentrano su parti del corpo femminili rientrano in tale processo: vedendo quell’”oggetto” privato del volto sempre più lo si associa a “qualcosa” più che a “qualcuno”. Si tratta dunque di una forma di violenza forte che volevamo denunciare. Il nostro obiettivo è stato raggiunto, se si considera che “Il corpo delle donne” è stato visto da 12 milioni di persone, un numero altissimo per un documentario.

Perché l’uso dei corpi femminili che viene fatto dai media non suscita indignazione?
Per un processo di assuefazione. Abbiamo iniziato a vedere queste immagini dall’inizio degli anni ’80, spalmate in diverse reti durante tutto l’arco della giornata, entrando così nell’universo di riferimento italiano e diventando normali. A ciò si è sommata la disattenzione colpevole di parte degli intellettuali e delle intellettuali italiane che avrebbero potuto dire “basta” e che invece hanno scambiato quella che era un’oggettivazione ed una demonizzazione feroce con una forma di libertà, dimostrando una grande ignoranza del potere dei media. Molti hanno così confuso la libertà dei corpi degli anni ’70 con il capitalismo dei corpi successivo. C’è una grande differenza tra la liberalizzazione consapevole degli anni ’70 ed un corpo in televisione, privato del volto. Qui l’obiettivo non è la libertà ma vendere qualcosa.

Cosa è cambiato in televisione dopo la diffusione del documentario?

Il documentario ha dato l’avvio ad un grande cambiamento e ad una presa di coscienza da parte delle persone. Quando è uscito siamo stati invitati da centinaia e centinaia di associazioni per presentarlo e commentarlo. È cambiato molto: non ci sono più riprese insistenti su parti del corpo femminile.  D’altra parte resta molto ancora da fare: si pensi al numero ancora esiguo di donne ai convegni e in molte trasmissioni televisive.

Il linguaggio della televisione e dei media può alimentare la violenza contro le donne?
La presenza dei corpi femminili oggi non riguarda più soltanto la televisione ma anche internet. Il corpo delle donne ancora vende: pensiamo alle immagini femminili nelle colonne laterali dei giornali online.

Abbiamo quindi deciso di portare nelle scuole l’educazione all’uso consapevole dei media. Abbiamo scelto di far questo perché il pericolo al quale si va incontro è grande: in un mondo dove i media hanno preso gran parte delle nostre vite, occuparsi di come siamo rappresentate è altamente importante. Eppure c’è molta ignoranza in Italia, anche nel femminismo: le femministe italiane consapevoli del potere dei media sono pochissime. Io sono invece convinta che il femminismo debba partire dalla verifica dei mezzi di comunicazione perché è da qui che nasce la rappresentazione del mondo. Se si pensa a come vengono mostrate le donne sui media è facile capire perché facciamo ancora fatica ad essere considerate nella società. Sicuramente la colpa non è soltanto dei media, ma questi ultimi hanno una responsabilità molto grande.

Internet ha dunque esasperato il problema?

Internet, se usato bene, rappresenta un grande strumento di democrazia e di denuncia. Il nostro documentario, ad esempio, senza internet non avrebbe circolato. Sono contraria a qualsiasi tipo di censura ma credo fortemente nell’importanza dell’educazione. Credo sia un errore introdurre nelle scuole l’uso libero degli smartphone, come annunciato dalla ministra Fedeli, senza una formazione a tappeto dei docenti sull’uso consapevole della tecnologia. Bisogna insegnare ad usare internet in modo proattivo. I ragazzi solo apparentemente hanno dimestichezza con la rete: in realtà conoscono pochissimo le potenzialità del web.

Al contrario, se si ha una formazione, si può far capire ai ragazzi che internet può rappresentare uno strumento di protesta e denuncia anche contro l’oggettivazione dei corpi fatto dai media. Bisogna però essere educati a farlo altrimenti i ragazzi diventeranno cittadini e cittadine succubi.

“Se l’è andata a cercare”. È una frase orribile che tuttora si sente dire dinanzi ai casi di violenza contro le donne, spesso anche giovanissime. Cosa si cela dietro questo pensiero, ancora radicato?

Cosa dire, mi viene da piangere. Io appartengo a quella generazione che ha iniziato a respirare, a non essere giudicata una “puttana” solo perché indossavi la minigonna. Mi viene in mente il documentario “Processo per stupro” dove emerge la mentalità orripilante di cui stiamo parlando. Poi non è più stato così, ci sono stati importanti passi avanti e noi donne stiamo decisamente meglio rispetto al passato. Tuttavia un certo modo di pensare continua ad esistere. Nelle scuole non si fa più educazione sessuale ed i media sono portatori di una mentalità arretrata. Le immagini di corpi nudi confondono gli spettatori e le spettatrici. Vengono diffuse immagini moderne ma il verbalizzato rispetta una cultura retrograda.

Questo tipo di cultura che passa da trent’anni è andata a calarsi nel vuoto siderale di un paese che ha i più alti tassi di abbandono scolastico di Europa e di analfabetismo di ritorno da adulti. Penso che insieme alla disoccupazione giovanile questo sia il problema principale dell’Italia. Mi è capitato di incontrare una madre, apparentemente molto moderna, contraria all’educazione affettiva nelle scuole: “non vorrei che parlando di queste cose –  mi ha detto – a mia figlia venisse voglia”. Non sentivo da decenni un discorso così e lo ha fatto una donna apparentemente molto moderna. Tra le cause di questo discorso vi è anche il ruolo dei media.

Le parole sono importanti. Cosa si intende per femminicidio?

Per femminicidio si intende l’omicidio di una donna in quanto donna. Se stanotte entrasse un ladro in casa mia e mi uccidesse non si tratterebbe di femminicidio ma di omicidio perché il suo intento era rubare. Il recente assassinio della povera Noemi è un femminicidio. Coniare questo termine è stato importante perché il linguaggio contribuisce a portare all’attenzione un problema che altrimenti viene confuso con altro. Le donne vengono ammazzate anche perché in quanto donne. Riconoscerlo vuol dire portare avanti una battaglia importante. Allo stesso modo è importante nominare il mondo al femminile perché il linguaggio ti racconta che una realtà esiste. Una volta mia figlia mi disse: “perché tutte le vie sono dedicate ai signori e non alle signore?”. Non è una banalità, così come non lo è parlare di femminicidio.

Nei casi di femminicidio assistiamo al ripetersi dello stesso copione: l’uomo viene lasciato dalla donna e la uccide. Perché avviene questo?
É vero, è quello che succede, sia tra i giovani che tra gli adulti. Questo avviene indipendentemente dall’età e dal ceto sociale e anche in Paesi dove il gender gap non è terribile come nel nostro. Anche il Norvegia ad esempio il numero di femminicidi è molto alto, sebbene lì le donne abbiano acquisito molti più diritti rispetto che da noi.

Perché avviene questo? Le ragioni sono sicuramente tante ma credo vi sia una grande spiegazione: non dobbiamo mai dimenticare da dove veniamo. Pensiamo al fatto che qualche decennio fa le donne non avevano diritto di voto. In 70 anni è avvenuto quello che non era successo in migliaia di anni. C’è stata un’accelerazione incredibile. Pertanto non bisogna deprimersi, dobbiamo sempre guardarci indietro e renderci conto dei passi avanti che sono stati fatti. Eppure per millenni l’uomo è stato completamente sicuro del suo ruolo e la donna “doveva farsi sposare”, altrimenti veniva considerata una “zitella”.

Il mondo era nelle mani dell’uomo e questa sembrava una realtà immutabile. Di colpo, nel giro di un paio di generazioni, le donne hanno in qualche modo preso il sopravvento, iniziato a guadagnare, a prendere le pillola e ad essere libere così di riprodursi o meno. C’è di più: le donne hanno iniziato a scegliere di lasciare un uomo. Gli uomini si sono così trovati in pochi anni a fare i conti con questa nuova realtà e ciò credo sia faticosissimo.

Nelle scuole incontro ragazzini spaventati, gelosissimi, terrorizzati dal pensiero che le ragazze possano lasciarli. Tutto questo non va giudicato, va accompagnato. Incontro presidi che mi raccontano di ragazzine che non partecipano alle gite perché il ragazzo non vuole.  I ragazzi hanno paura, la libertà delle ragazze spaventa enormemente. Cosa facciamo? Non bisogna giudicare ma è necessario educare, accompagnare questo cambiamento, spiegare la rivoluzione in atto e far capire che è normale averne paura, ma bisogna superarla. A me non colpisce ciò che sta avvenendo quanto il fatto che nessuno faccia niente.

La violenza contro le donne si combatte dunque partendo dall’educazione nelle scuole?

Assolutamente sì. Nell’età evolutiva agiscono tre agenti di socializzazione: la famiglia, la scuola ed i media. Dopo aver riconosciuto le eventuali colpe delle famiglie bisogna agire. Considerato che è impossibile entrare nelle case di ognuno e che a scuola vanno tutti, almeno fino a 16 anni, è importante intervenire al suo interno. Questo dovrebbe essere il punto principale dell’agenda politica del Paese. L’altro potente agente di socializzazione sono i media. Io incontro tantissimi ragazzi devastati da un uso non consapevole della rete. La Rai, come servizio pubblico, dovrebbe prendersi carico di questo ed educare, come del resto fanno altrove. Se lo fanno gli altri perché non possiamo farlo noi?

Alessandra Profilio